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Quei condensati simbolici del dominio sui sardi

di Cristiano Sabino

Foto di Rossella Fadda

Opere d’arte e simboli della coercizione che agisce ancora

L’uomo è un animale simbolico e i simboli sono i segni di un ordine di potere, di una gerarchia, di una stratificazione sociale, economica, territoriale e politica che indica chi sta sopra e chi sotto, chi ha diritto alla memoria civile e chi viene condannato alla damnatio memoriae. Porre la questione dei simboli significa porre la questione del potere, cioè mettere in discussione le relazioni fra chi domina attualmente impugnando il testimone di chi ha dominato in passato e chi ha subito ieri e continua a subire oggi. Se il legame non è manifesto o inesistente, se la continuità tra ieri e oggi non affiora o si è interrotta, se i dominatori di ieri non allignano nei dominatori di oggi, la questione dei simboli cessa di essere tale e viene derubricata a forma d’arte, a dibattito estetico, a mera logica della monumentalità. Ecco perché a nessuno verrebbe mai in mente di abbattere le piramidi considerate (anche se probabilmente a torto) come il condensato simbolico dello schiavismo egizio o di smontare il Colosseo perché emblema della crudeltà del potere imperiale. Quando però, nell’aprile 1871, i comunardi a Parigi abbattevano la statua di Napoleone, l’obiettivo non era certamente storiografico, bensì politico, perché l’oggetto del contendere veniva individuato nell’ordine sociale borghese condensato in Napoleone III.

Decapitare, abbattere, vandalizzare le statue di Robert Milligan, commerciante scozzese proprietario di schiavi, di Edward Colston, mercante di Bristol arricchitosi nel Seicento anche con il commercio degli schiavi dall’Africa occidentale, di Cristoforo Colombo, considerato causa efficiente dello sterminio dei nativi americani e di Indro Montanelli, emblema del colonialismo italiano e della violenza coloniale su quelle popolazioni, sono atti politici che mettono radicalmente in discussione gli assetti dell’oggi, non le ferite mnemoniche di ieri.

L’intreccio di simboli e realtà

Chi sostiene che sia inutile prendersela con i simboli anziché con il sistema o dissimula, in maniera anche abbastanza goffa, una organicità con il sistema medesimo, o semplicemente non comprende le implicazioni reali ed attuali di ciò che significa rimuovere condensati sistemici della violenza e della sopraffazione dal paesaggio urbano. La più grande rivoluzione della storia ha intaccato prima il simbolo dell’assolutismo che l’assolutismo stesso. La Bastiglia è stata assaltata e smantellata mattone per mattone non a causa della sua rilevanza strategica sul piano militare, ma a causa del condensato simbolico che essa rappresentava per il popolo parigino fino ad allora soggiogato nell’immaginario ancora prima che nei rapporti sociali. Aggredendo i simboli del potere che si vuole mettere in discussione, si acquisisce fiducia nella possibilità di portare il conflitto ad un livello più elevato, si scopre il carattere dinamico e mobile della storia che per larghe masse di persone è come una sfinge egizia, un mistero impenetrabile. Che la storia sia mobile, che i rapporti di potere possano essere trasformati anche radicalmente o addirittura rovesciati non lo si impara sui libri di storia. Ciò non soltanto perché i libri di storia spesso sono scritti dai vincitori e raccontano storie di «rivoluzioni passive» (Gramsci) – vale a dire di trasformazioni che conservano nel loro nocciolo i privilegi di chi inizialmente veniva posto in discussione – ma anche e soprattutto perché la storia è una manifestazione della prassi umana e solo attraverso la prassi è possibile comprenderne le dinamiche e orientarne i movimenti. Che la storia sia in movimento lo si comprende muovendosi e spesso, per fare la storia, si ha necessità di atti (e rotture) fortemente simbolici che funzionano come una sorta di segnalibro nel grande tomo temporale del movimento delle civiltà umane.

Quando emerge la questione della simbologia, così come quando emerge la questione del linguaggio e della lingua, non si tratta mai solo di questioni derubricabili all’estetica, al costume, in sintesi alla sovrastruttura dei fenomeni sociali. Significa che dal fondo della società ribollono conflitti mai sopiti, affiorano contraddizioni di potere e in palio stanno questioni tutt’altro che meramente simboliche.

Cosa accade nel viaggio da Bristol a Cagliari

Ovviamente anche la lotta per la definizione dei simboli da rimuovere, abbattere, riparametrare o ridefinire ci racconta molte cose sul terreno su cui ci si sta muovendo. Non è detto che una manifestazione di rottura a Bristol o a Parigi lo sia anche a Sassari o Cagliari. Può così accadere che una mobilitazione contraria alla subalternità di popolazioni storicamente soggiogate sbarchi in un territorio dove esistono analoghe condizioni di subalternità, senza che però essa attecchisca parlando un linguaggio proprio, ma mutuando il linguaggio delle contraddizioni altrui, delle ribellioni altrui, delle simbologie altrui e così rimuovendo – senza forse nemmeno esserne consapevoli – le condizioni della subalternità e della violenza presenti in quel determinato luogo.

Possiamo parlare in questo caso di un occultamento del potere attraverso la riproduzione  meccanica di simbologie antagoniste germinate dal conflitto in altri luoghi e riprodotte in loco senza intelligenza della storia, prescindendo cioè dall’adattamento plastico richiesto nello specifico contesto in cui si vive. Ciò accade quando è scarsa la fiducia che le cose possano essere ribaltate anche qui, o peggio, quando il problema del ribaltamento in loco non si pone neppure.

Il Black lives matter sradica le statue degli schiavisti nel nord America, attraversa l’oceano atlantico e critica le rappresentazioni di Leopoldo II a causa della spartizione colonialista dell’Africa e di Sir Winston Churchill, per le sue opinioni razziste e per aver negato aiuti alimentari all’India durante la carestia del 1943, che uccise due milioni di persone. Qui il movimento vive, si adatta fluidamente alle condizioni simboliche dei luoghi, si aggancia alla critica dei rapporti di potere che segnano ancora oggi le pesanti e ingombranti eredità del colonialismo europeo e addita all’opinione pubblica le contiguità tra quelle classi dirigenti che spoliarono tre quarti di mondo e le elites finanziarie e politiche che oggi, con lo stesso cinismo, speculano sui debiti sovrani, impongono politiche di austerità ai popoli subalterni e realizzano forme sempre più rapaci di capitalismo basato su privatizzazioni e precarietà sistemica.

Arrivato in Sardegna il movimento si sgonfia, si sterilizza, parla improvvisamente una lingua che non taglia, non punge, non affonda. Le statue di Vittorio Emanuele II e di Carlo Felice restano invisibili agli occhi dei manifestanti del Black lives matter e il movimento dimostra di non essere capace di trasformarsi in un Sardinian lives matter. Le torture e le forche per i rivoluzionari, gli assedi dei paesi ribelli e antifeudali, lo sradicamento della lingua sarda, il disboscamento di ampie zone della Sardegna, le politiche di sfruttamento e assoggettamento volute dai Savoia non riaffiorano nei cartelli dei manifestanti che si limitano a riecheggiare l’indignazione di altri crimini, di altre contraddizioni, di altre ribellioni, di altri luoghi, di altri tiranni, di altri colonialisti, di altri territori umiliati e offesi dal potere. Non riaffiorando i crimini del passato non emergono nemmeno i crimini del presente, la destinazione d’uso bellica di un’intera isola e di un intero popolo, lo spopolamento galoppante causato da precise politiche centraliste e da rapina, la sparizione di una cultura e di una lingua millenarie. L’elenco sarebbe lungo.

Integrazione delle classi dirigenti (anche di quelle critiche)

Se ciò accade non è imputabile solo al fatto che lo studio della storia della Sardegna viene sistematicamente espunto dal sistema delle principali agenzie formative scolastiche e universitarie della Sardegna. Ciò naturalmente influisce, ma non determina la mancata “nazionalizzazione” del movimento in Sardegna. L’idea che quelle statue, quei nomi di piazze e vie, siano neutrali e non simbolici è una operazione di cultura politica assai sofisticata, edificata nel corso del tempo, da parte di una classe dirigente che ha individuato nell’attuale assetto statuale un contesto comodo in cui potersi inserire ottenendo riconoscimenti, prestigio, remunerazione, consenso. Non hanno fatto eccezione le classi dirigenti critiche. In una condizione dove colonialismo e democrazia si incontrano fondendosi in un ibrido sociale, le classi dirigenti critiche sono anzi combustibile indispensabile per l’occultamento sistemico della subalternità, così come anche dei suoi simboli. Se esse non esistessero l’intera architettura su cui si regge la subalternità scricchiolerebbe sotto il suo stesso peso e mancherebbero indispensabili punti di scarico. Così periodicamente le classi dirigenti (o aspiranti tali) critiche assumono posizioni di conflitto sul piano generale, ma collaborano (consapevolmente o meno) all’occultamento della subalternità dei sardi e della Sardegna. Ciò accade in Sardegna da ormai un secolo, dalla nascita del socialismo che snobbò le principali conflittualità della questione sarda, fino all’affermarsi di una classe intellettuale apparentemente critica e radicale ma in realtà quiescente e silente davanti alle peggiori operazioni di sfruttamento dell’isola. In questo specifico caso, va bene criticare le statue degli schiavisti e dei colonialisti dagli USA al Belgio, dall’Inghilterra alla Francia, ma non i Savoia, i Cavour e i Garibaldi. Essi non si toccano perché insieme costituiscono l’olimpo filosofico di riferimento dell’unità statuale che, nel bene e nel male, rappresenta la modernità all’interno della quale poter trovare collocazione.

Quando nell’Atene aristocratica le classi produttive emergenti si accorsero che per loro le porte dell’Aeropago sarebbero state sempre sbarrate, allora iniziarono a premere dal basso con tutta la forza del loro peso sociale. Gli esiti che conosciamo sono la timocrazia, la tirannide filo popolare e infine la riforma democratica. Ciò sta accadendo negli Stati Uniti dove evidentemente la lotta contro il razzismo e per i diritti civili sta facendo un salto di qualità diventando una lotta per il controllo della storia e quindi per l’esercizio di quote sempre più elevate di potere da parte dei subalterni e dei soggetti marginali finora emarginati.

Il lavoro della talpa

La domanda che dobbiamo porci è se esistano componenti sociali escluse dagli attuali assetti della Sardegna subalterna di oggi. E se esista una volontà collettiva in formazione per la ridefinizione e ricontrattazione della condizione di subalternità della Sardegna. Se ciò non si è ancora manifestato non vuol dire che non potrà manifestarsi, magari anche in forza esplosiva, dirompente e del tutto inedita, nel prossimo futuro. Alle volte il lavoro della talpa sorprende anche gli osservatori più radicali.

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