CAPITALISMO GLOBALE E ORDINE BIANCO

di Andrìa Pili

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Aurélia Michel, Il bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine razzista, Einaudi, 2021 [2020].

Introduzione

Tra il 2020 e il 2021, nell’isola antillana della Martinica (territorio d’Oltremare francese patria di Frantz Fanon ed Aimé Césaire), dei militanti anticolonialisti hanno abbattuto o sfregiato delle statue di Victor Schoelcher, politico francese fautore della legge che, nel 1848, ha abolito la schiavitù nelle colonie. Il Presidente Macron condannò duramente questi atti, affermando che Schoelcher, abolendo la schiavitù, ha fatto la grandezza della Francia. Lo scalpore dell’opinione pubblica fu causato dalla incapacità di distinguere tra la figura storica di Schoelcher e ciò che il suo monumento rappresenta, il simbolo di un atteggiamento paternalista che riduce i martinicani a un ruolo meramente passivo, costretti a ringraziare un benefattore francese e a ridimensionare o rimuovere l’importanza delle lotte dei neri per l’abolizione della schiavitù. Inoltre, l’intento dei militanti è stato anche quello di evidenziare che il colonialismo nella Martinica non è veramente morto con la fine della schiavitù nel 1848 o la “dipartimentalizzazione” nel Novecento: le conseguenze sono ancora ben presenti nell’organizzazione economica e sociale dell’isola, fortemente razzializzata (a beneficio di un’élite bianca) e il cui settore agricolo e commerciale è fortemente esposto nella lavorazione della canna da zucchero. Ciò che hanno voluto dirci, insomma, è che la storia del colonialismo e della schiavitù, in un certo senso, non è ancora passata; il che è evidente anche nella metropoli europea, come ha scritto l’artista e psicologa portoghese afrodiscendente Grada Kilomba (2010): il razzismo quotidiano continua a relegare i neri, simbolicamente, nella piantagione.

Il bianco e il negro è un testo che ci aiuta a comprendere meglio questo aspetto.

La sua autrice, Aurélia Michel, è una storica dell’Università Paris-Diderot, ricercatrice del CESSMA (Centre d’études en sciences sociales sur les mondes africains, américains et asiatiques) e docente di storia delle Americhe Nere e dell’America Latina. I suoi temi di ricerca riguardano la storia del Messico e del Brasile post-schiavista, le società urbane latinoamericane, la storia della schiavitù, della razza e del razzismo. Attualmente si è focalizzata sui processi di costruzione dello Stato-nazione in America Latina in riferimento all’integrazione delle popolazioni nere e indiane. Il suo libro si pone come obiettivo quello di seguire il percorso storico della “razza” nella costruzione del mondo contemporaneo. L’autrice appartiene alla corrente di scienziati sociali per cui la razza, pur non esistendo sul piano biologico, è una realtà sociale e politica; inoltre, si pone contro chi vorrebbe fare del razzismo una questione meramente morale e critica chi intende ridimensionare la portata della storia della schiavitù dei neri. Perciò, intende evidenziare i fatti e i processi storici che mostrano come la centralità della schiavitù nella costruzione della modernità europea, in continuità con il razzismo istituzionale e la violenza attualmente presenti nelle democrazie capitaliste.

La razza, l’ordine bianco, il negro

L’autrice ricostruisce la genesi del termine “razza” facendolo risalire al XV secolo, quando è comparso per designare la discendenza dalla nobiltà feudale, al fine di distinguerla dagli individui comuni (Tournier 1992). Da qui sino al secolo successivo, l’enfasi sui legami di sangue rispetto a quelli con la terra è stata funzionale a rispondere alla crisi dell’economia feudale, con determinate modifiche ai principi di successione ed eredità (Haddad 2017). Nel Seicento la parola viene utilizzata per designare le linee di discendenza animale; un secolo dopo anche per differenziare i gruppi umani (Bancel, David, Thomas 2014). Negli anni ’30-’40 del XIX secolo il vocabolo acquisisce il suo significato contemporaneo, cioè quello di classificare la specie umana in sottoinsiemi facendo riferimento a delle caratteristiche fisiche e morali ritenute comuni.

Un altro concetto fondamentale per l’opera della storica francese è quello di “Ordine bianco”: esso sarebbe nato dal Ancien Régime cristiano europeo e dall’espansione atlantica, per poi svilupparsi a partire dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese: “Un ordine sociale, economico, militare, politico, ideologico fondato sull’autorità dell’individuo maschio di origine europea e (…) sul suo desiderio di libertà, di famiglia, di proprietà e di patria”, che si difende dalla sua contraddizione democratica ed egalitaria anche con l’argomento della razza. Il termine “bianco” si fa risalire al secolo XVII, con lo sviluppo dell’economia delle piantagioni schiaviste nei Caraibi (Baum 2006), al fine di definire in modo unitario i membri dominanti della società coloniale, cioè gli uomini di origine europea, distinti da neri, indiani, meticci che lavoravano forzatamente per loro. Nel contesto coloniale, dunque, la razza acquisisce una determinata funzione politica.

Il termine “negro” precede il “bianco”: esso designava gli schiavi comprati in Africa dai portoghesi e poi rivenduti ai coloni iberici nelle Americhe, poi integrata nelle lingue di altri Paesi coinvolti nella tratta atlantica. Data la sua origine, la parola “negro”, d’ora in avanti, sarà irrimediabilmente associata a quella di “schiavo”: tutti i neri in America erano schiavi. Secondo l’autrice, il negro, prodotto del secolare sfruttamento nelle piantagioni atlantiche e prima energia fondamentale per il capitalismo globale, è una finzione che rappresenta la distruzione permanente dell’umanità dei neri:“il negro è diventata l’essenza di ciò che il bianco ha deciso di fargli subire”, esso è naturalmente malvagio, pigro, instabile.

Nell’Enciclopedia Francese del 1751 la voce “negro” designa gli schiavi neri in America e, per estensione, anche gli abitanti delle varie regioni dell’Africa di loro provenienza. In tal modo si diffonde l’identità tra negro, africano e schiavo. Tuttavia, come noto, la tratta atlantica è stata modesta entro tutta la storia della schiavitù, né gli africani sono stati gli unici schiavizzati e gli europei gli unici loro aguzzini. Inoltre, nel suo senso contemporaneo il termine razza compare quando la schiavitù sta venendo meno: dunque, essa non precede e non giustifica la schiavitù; al contrario, gli europei diventano razzisti proprio perché hanno reso schiavi gli africani.

Per l’argomentazione di Michel diventa fondamentale spiegare cosa ha reso peculiare la tratta degli schiavi del capitalismo atlantico rispetto alle altre forme di schiavitù nella storia.

La schiavitù

In tutto il testo, l’autrice riprende e utilizza la definizione di schiavitù dell’antropologo economico marxista Claude Meillassoux (2016, [1986]), basata sui suoi studi sull’Africa Occidentale: lo schiavo è un individuo alienato dalla propria società d’origine e come tale, svincolato da obblighi sociali verso la sua comunità e per la riproduzione di essa, è dedito unicamente al servizio esterno senza partecipare, da membro, alla riproduzione del gruppo in cui lavora. Schiavo e libero si definiscono in rapporto alla parentela: il primo è “l’anti-parente”, l’escluso dall’umanità, un non nato, spersonalizzato, desessualizzato (non ha ruolo nella riproduzione della società dei padroni), decivilizzato, privo di supporti relazionali; il secondo è il “parente”, inserito in una linea di reciprocità differita regolata dalla discendenza. L’esclusione dello schiavo permette il suo addomesticamento e la sua assimilazione fittizia, senza che possa mettere in discussione la dinastia e l’ordine sociale stabiliti.

La parte prima del testo è dedicata alla ricostruzione storica dell’istituzione della schiavitù, conosciuta ovunque nel mondo a partire dai tempi antichi, mostrando il nesso tra schiavitù e logica dei grandi imperi: la stabilità delle tratte facilitò la formazione di entità politiche fondate sul controllo dei mercati. Riguardo l’Africa, essa non è “naturalmente” il continente della schiavitù ma lo è divenuto in rapporto con altre società, prima con l’espansione araba degli imperi musulmani e poi con l’impero europeo. Inizialmente, dunque, lo statuto di schiavo non era legato al colore della pelle.

In Europa Occidentale dal XII secolo in poi il lavoro forzato stava scomparendo; vi ricompare al termine del XV secolo come prologo di quanto avverrà nelle Americhe. Nel 1471 i portoghesi occuparono l’isola di Sao Tomé, in un arcipelago al largo del Gabon, per farvi una piantagione di zucchero. Secondo Michel questo fatto rappresenta una rottura cruciale nella concezione dell’economia e nel progetto coloniale, coinvolgendo in essa l’intero capitalismo mercantile europeo. Sull’isola erano confluite due fondamentali tendenze del momento: la ricerca di territori propizi alla coltivazione dello zucchero, per sottrarsi all’import dall’Asia; l’acquisto, in cambio di oro, di schiavi dall’Africa Occidentale da impiegare come manodopera nelle piantagioni. Sao Tomé viene visto come un esempio della possibilità di concentrare la produzione in una qualsiasi parte del mondo, nel modo più redditizio, aggirando i limiti spaziali e demografici. Esso avrebbe rappresentato la prima separazione tra produzione e riproduzione, fino ad allora interdipendenti, facendo nascere la modernità economica. Un’innovazione che Michel paragona alla delocalizzazione dei marchi alla fine del XX secolo. Con la conquista dell’America la schiavitù diventa la soluzione che consente di produrre nei nuovi territori conquistati, risolvendo il problema dell’assenza di manodopera a fronte dell’abbondanza di risorse; la tratta dall’Africa Occidentale e Centrale garantì un’offerta immensa per una domanda creata dalla scoperta delle Indie Occidentali. Perciò assistiamo a una notevole crescita di schiavi nelle Americhe, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo: 3000 nel 1593; 8000 nel 1600; 17000 nel 1620.

La piantagione e i principi politici moderni

L’America del XVI secolo non è soltanto oggetto degli investimenti di capitale europei ma anche la base materiale e teorica del potere politico in Europa. La seconda parte del libro è incentrata sulla relazione tra l’apertura delle rotte commerciali marittime atlantiche e l’elaborazione dei principi politici moderni: la sovranità e la forma degli Stati regi precedenti gli Stati-Nazione. La colonizzazione ha forgiato i principi di sovranità territoriale delle Corone su un territorio naturale, innescando la rivalità tra esse. Tale competizione occulta una profonda integrazione nel capitalismo mercantile europeo, in cui la costruzione dello Stato europeo comprende in sé anche la nozione di spartizione del mondo.

Se l’affrancamento dalla distanza è la conseguenza di un miglioramento delle tecniche produttive, l’affrancamento dai ritmi demografici è il frutto di un quadro politico che ha permesso il ricorso alla schiavitù. La piantagione atlantica è una nuova forma produttiva, un dispositivo su scala globale fondato sui principi dell’economia moderna: la proprietà privata, capitali, l’organizzazione del lavoro, lo Stato. Un’immensa manifattura in cui l’uso sistematico della violenza è l’unico principio di socializzazione: gli schiavi non sono soggetti politici, né sociali, non si riproducono spontaneamente, fanno parte del capitale e sono comprati sul mercato. Affinché possa essere continuamente alimentata è necessaria una gestione razionale e statuale per fabbricare “negri” e farli lavorare: una “industria di disumanizzazione” sviluppatasi al ritmo del commercio coloniale. Il successo dell’impresa nelle Antille è garantito dall’approvvigionamento di negri. Un esempio di ciò è stato il Codice Nero di Colbert (1685), il cui obiettivo è l’organizzazione razionale del lavoro degli schiavi nella piantagione di zucchero nelle Antille francesi perché garantiscano la massima produzione di merci da esportare, al fine di tenere una bilancia commerciale favorevole in nome della dottrina mercantilista. Perciò, in esso troviamo disposizioni per nutrire gli schiavi, vestirli, reprimere ogni tipo di loro autonomia distraente dall’obiettivo primario della produzione di zucchero o caffè. La piantagione è una proprietà piena e integrale, da cui non è possibile dissociare le officine e gli schiavi. Scrive Michel che, con il Codice Nero, si viene a formare “una ragione di stato che produce il negro, lo cattura in Africa, lo trasporta attraverso i mari, lo costringe a lavorare”. Lo Stato mercantilista francese sarebbe l’evoluzione ultima della Compagnia delle Indie olandese e inglese, con il connubio tra interessi privati e l’interesse alla “prosperità” dello Stato.

A metà del Settecento il sistema della piantagione coloniale entra in crisi a causa di una caratteristica intrinseca: l’incapacità di riproduzione degli schiavi. Infatti, l’incremento della produzione minaccia la capacità di riproduzione della società coloniale premendo sulla tratta degli schiavi e la colonizzazione di popolamento degli schiavisti. I piantatori non possono comprendere che, perché i “negri” possano riprodursi, sarebbe necessario restituire loro l’umanità. La spinta all’estensione del territorio dominato rafforzò la domanda di manodopera: a fronte di una domanda sempre più rilevante si presenta una crisi di approvvigionamento e di produzione degli schiavi; i prezzi salgono, inducendo gli operatori a cercare alternative alla tratta atlantica. La congiuntura di metà secolo, tra la guerra dei Sette Anni (1756-1763 Francia e Spagna vs Inghilterra nelle colonie) e la crisi delle filiere negriere – obbligò le amministrazioni europee a riorientare il governo e dunque a erodere le fondamenta della piantagione, affermando un cambio di paradigma che porterà al progressivo abbandono della schiavitù come modalità produttiva.

Haiti (Saint Domingue) sarà il centro della crisi del sistema, entro la tensione rivoluzionaria tra la Francia e le colonie: la Rivoluzione Francese pose la questione dell’applicazione dei diritti dell’uomo e del cittadino ai neri; i bianchi di Saint Domingue si rifiutano e si organizzano in assemblea permanente bianca votando leggi discriminatorie, dando il via alla guerra civile. Tra il 23 e il 24 agosto 1790 si verificarono rivolte di schiavi in tutta l’isola, con il massacro di centinaia di bianchi, incendi e saccheggi delle loro abitazioni. Sono di fatto i neri a obbligare i commissari rivoluzionari all’abolizione della schiavitù sull’isola, poi estesa dalla Convenzione a tutte le colonie nel 1794. La finzione del negro ora non è più solida, non riesce più a garantire la produzione coloniale. Anche se la schiavitù verrà poi ripristinata nel 1802 da Napoleone, la situazione è ormai stata scossa ed è necessario pensare a nuovi sistemi che riescano a garantire la produzione nelle colonie. In questo passaggio storico, alla schiavitù seguirà la razza.

La razza e la nazione

La parte terza è dedicata alla contraddizione tra l’uguaglianza propagandata dalle rivoluzioni nazionali borghesi e la persistenza di fatto di un’esclusione su base razziale. Le rivoluzioni della fine del XVIII secolo e i movimenti romantici nazionali tedesco e italiano costruirono un nesso fra nazione, libertà e uguaglianza: l’appartenenza nazionale si collega alla definizione indoeuropea del libero, il quale si definisce tale in una comunità di congeneri, la nazione; la comunità nazionale è una comunità di parenti cui ogni membro contribuisce assicurando la sussistenza delle generazioni future e pagando, con le imposte, il proprio debito alla generazione precedente. Si pone dunque la questione della integrazione dei neri come “congeneri”; i piantatori e proprietari di schiavi – molti dei quali sono promotori del processo democratico in atto – ovviamente si oppongono. La finzione del negro, sorta dalla schiavitù, ora diventa funzionale a spiegare il nuovo ordine politico ed economico attivato a partire dalle rivoluzioni democratiche borghesi negli USA, la cui costituzione è stata scritta per liberi proprietari, escludendo neri e indiani dalla cittadinanza.

Stati Uniti e Francia sono state due società schiaviste che hanno formulato i fondamenti della società politica e democratica, poi trovatesi di fronte al paradosso di mantenere la schiavitù e all’impossibilità di assimilare i neri entro la “fraternità nazionale”. Questo è il contesto in cui si consolida il concetto di razza nel discorso scientifico, al fine di giustificare la diseguaglianza tra gli uomini e dunque gli ordinamenti legali che la sanciscono. Ad esempio, il Codice Napoleonico impediva matrimoni misti nelle colonie; ai neri è proibito partecipare alla guerra e i neri che in passato hanno servito l’esercito francese si vedono revocare la pensione.

Dalla rivolta di Haiti il principio coloniale si è evoluto per mantenere di fatto le caratteristiche della schiavitù senza poter più ricorrere a essa. Tra il 1815 e il 1830 si passò dai vecchi modelli della piantagione schiavista al libero commercio di prodotti manifatturieri e tropicali, egemonizzato dall’Impero del libero scambio inglese: vendita di manufatti in India, da cui si acquista oppio da vendere in Cina in cambio di tè; Cina e Sud-Est asiatico diventano mercati di consumo per prodotti europei. La maggioranza dei sostenitori di un’economia liberale e industriale proviene dai più potenti ambienti dell’economia coloniale.

Dal 1830 al 1850 (ad esempio la occupazione francese dell’Algeria), le nuove conquiste europee sono concepite come colonie di popolamento. A seconda della densità di popolamento delle aree conquistate, vi sono forme di dominazione differenti: dove la densità è alta, si destina parte della manodopera verso le aree di produzione; dove la densità è bassa si combinano dinamiche di popolamento e tratta. Il paradigma della razza permette l’uso della violenza necessaria a questi aggiustamenti per effettuare spostamenti forzati, lavoro forzato, occupazioni territoriali e assoggettamento di popolazioni. In tal modo, si va verso imprese coloniali da coloni pionieri-proprietari giungendo all’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi con la legge voluta da Schoelcher (1848), il quale era fautore di un colonialismo di popolamento in favore degli europei più poveri.

La possibilità legale che dei negri diventino cittadini-proprietari induce le élite coloniali a sottrarre loro l’accesso alla nazione, vincolandolo all’identità immaginaria e pseudo-naturale della “bianchezza”, cui si accede per filiazione biologica. Passiamo così dalla finzione “negra” alla finzione del “bianco”. L’autrice conia il termine “domi-nazione” per mostrare come l’idea di razza abbia accompagnato la fine della schiavitù atlantica e l’instaurazione delle forme di potere stato-nazionali a capo di nuovi imperi coloniali. Questa transizione è stata guidata dai gruppi di potere di due campi con interessi distinti: i piantatori legati al modello schiavista atlantico e le nuove élite industriali liberali ricercanti materie prime e sbocchi commerciali. Dalla tensione fra loro si è giunti gradualmente a un’accezione particolare di nazione che limita solo a certi gruppi la portata dell’uguaglianza, tanto in Europa quanto negli Stati sorti dalle indipendenze dalla Spagna in America Latina. I codici civili e le legislazioni moderne hanno l’obiettivo di regolare la detenzione e la trasmissione della proprietà: la nazione è dunque la domi-nazione, la nazione delle “domus”, delle proprietà; la nazione si fonda sul dominio dei proprietari su coloro che lavorano per altri, assicurando la riproduzione della stessa proprietà. Tale concezione è durata almeno un secolo ed è stata una rinegoziazione dell’uguaglianza rivoluzionaria alla luce dell’esperienza coloniale, ponendo le basi di uno sviluppo economico estraneo alla schiavitù. Tra il 1850 e il 1883, secondo Michel, la razza è un elemento organizzativo della realtà economica, come la moneta o lo Stato; organizzò il lavoro su scala mondiale rendendo possibili tratte e migrazioni nuove e regole differenti di popolamento. Nel frattempo, negli Stati Uniti si abolisce la schiavitù ma gli Stati del Sud voteranno le leggi Jim Crow, che instaurano la segregazione nelle scuole e vietano i matrimoni misti.

La Conferenza di Berlino (1885) aprì la competizione della seconda rivoluzione industriale, con la regolazione dell’espansione coloniale spinta dai progressi del capitalismo industriale in materia di restrizione costi di comunicazione e trasporto. A giustificazione delle nuove conquiste vi era la civilizzazione del negro, il quale paradossalmente viene sempre più descritto come lontano dalla civiltà, la quale è per lui chiaramente irraggiungibile più gli europei si assumono il compito di civilizzarlo: così viene dipinto sempre più come pigro, incosciente, ingenuo, infantile, innamorato delle feste. Da qui alla Grande Guerra si entra nel periodo che la storica definisce come del “governo delle razze”: non si tratta più di distinguere bianchi e neri nello spazio atlantico ma di trovare un repertorio per organizzare il lavoro, governare le popolazioni, amministrare i territori. In America Latina sorgono nuove piantagioni su investimenti capitali nordamericani ed europei con multinazionali quali la United Fruit.

Nel contesto coloniale, la scienza delle razze è dunque la scienza di gestione delle popolazioni e dei territori in vista della produzione coloniale; la politica delle razze consiste nell’appoggiarsi alle reti politiche delle popolazioni colonizzate, per evitare di applicare le leggi della metropoli e di integrare nuovi cittadini nell’impero; le popolazioni sono censite secondo un gruppo etnico cui l’amministrazione coloniale assegna arbitrariamente un delimitato territorio. In Europa, l’immagine della nazione si costruisce su un ordine razziale non egalitario e che presuppone il dominio degli europei sugli altri popoli.

All’inizio del XX, l’ordine razziale e il principio coloniale si consolidano in tutti i continenti, mettendo a confronto la vitalità di una nazione con quella delle altre. La Grande Guerra sarà il primo conflitto di massa e la sua conseguenza è stata quella di far diventare la razza un’ideologia delle folle. La finzione del bianco ha compattato le élite con una parte delle masse popolari in nome della potenza nazionale; la guerra ha esteso la finzione bianca e negra a tutte le aree nella società civile, facendo della nozione di razza una nozione popolare e associata al sentimento nazionale. Sotto l’insegna della supremazia bianca si articolano gli interessi coloniali e padronali con movimenti sociali e popolari; la finzione negra è una valvola di sfogo per esercitare una violenza fisica, salariale e politica.

Nella Francia degli anni’20 inizia a vedersi la razza in città: mestieri sottopagati per le popolazioni razzializzate. In particolare, le donne borghesi europee, per assicurarsi l’emancipazione, hanno bisogno del lavoro delle domestiche nere antillane.

Oggi: disfare la razza

Secondo Michel, la razza continua a organizzare i rapporti sociali nelle nostre democrazie come i rapporti tra Stati-nazione. A prova di ciò cita la diseguaglianza nell’accesso a una casa o a un lavoro tra bianchi e non bianchi in Francia nel 2010. Tuttavia, a suo dire, la persistenza della razza non sarebbe più legata alle esigenze del capitalismo e dell’attuale ordine politico. La razza, secondo la sua visione, sarebbe un fatto psicologico non del tutto razionalizzabile entro la teoria economica o il “pragmatismo capitalista”; perciò essa verrebbe chiamata in causa oggi al fine di rendere sopportabile una realtà ben diversa dal principio di uguaglianza, sbarrando così l’accesso alla parentela per proteggere il privilegio dei bianchi. In conclusione, l’autrice sostiene la necessità di far avanzare il principio di uguaglianza, congedandoci dalla finzione naturale a proposito di filiazione, vita sociale, comunità politica; farla finita con il mito della filiazione biologica come organizzazione del sociale. Insomma: “disfare la razza”.

Considerazioni finali

Il lavoro di Aurélia Michel presenta almeno due aspetti interessanti per gli studi postcoloniali e decoloniali: il razzismo come parte essenziale della costruzione del capitalismo; la persistenza della storia coloniale nelle società odierne, tanto in quelle sorte dalla fine del colonialismo classico quanto nei Paesi colonizzatori, in particolare nel processo di costruzione del loro Stato-Nazione che mantiene oggi le sue logiche di esclusione contro gli immigrati dal Sud globale e dall’Est europeo.

Inoltre, per quanto la storia economica, almeno da Bairoch (1976) in poi (ad esempio Acemoglu e Robinson 2017) abbia mostrato come le conseguenze del colonialismo per i Paesi dominati siano state più importanti rispetto ai benefici complessivi per i Paesi colonizzatori, nel testo notiamo come le colonie siano state un laboratorio per il capitalismo globale e nazionale. Questo differenzia la piantagione schiavile e la tratta degli schiavi dalla schiavitù delle epoche passate. Adottando questo punto di vista che lega la schiavitù allo sviluppo del capitalismo storico – chiaramente erede di una tradizione che ha il suo capostipite in Eric Williams (1944) e poi in una traiettoria che passa per l’economia-mondo e i sistemi-mondo di Braudel (1979) e Wallerstein (1974, 1980), fino agli studi più recenti di Beckert (2014, 2016), che, tuttavia, Michel non cita – la schiavitù non è stata un residuo passato posto d’ostacolo allo sviluppo del capitalismo. Nella seconda parte del libro viene citato il fisiocratico Le Mercier (1767), intendente della Martinica e in seguito piantatore a Saint Domingue, il quale si fece ispirare la sua concezione di ordine sociale ideale – ovvero la sua visione dell’ordine economico naturale teorizzato dalla fisiocrazia, poi fatto proprio dai liberisti – dall’economia coloniale, emancipata dai vincoli feudali allora vigenti in Europa. In questo senso, trovo che siano stati significativi gli studi di Robert Fogel (1974, 1989), sebbene vadano contro l’idea di una schiavitù abolita in nome delle esigenze contingenti del capitale, i quali avevano mostrato come l’agricoltura schiavista degli Stati secessionisti degli USA, al momento della guerra civile, non fosse affatto inefficiente.

Per quanto riguarda la tesi della piantagione schiavile come primo superamento dei vincoli della distanza per la produzione capitalistica, è interessante confrontarla con quanto sostenuto, tra gli altri in modo particolare dall’economista Richard Baldwin (2018 [2017]), il quale ha elaborato la sua tesi della globalizzazione contemporanea come un “grande spacchettamento” iniziato con la Rivoluzione Industriale – e la conseguente notevole riduzione dei costi di trasporto – prima della quale vi sarebbero stati solo scambi commerciali tra poli fissi di produzione e consumo, essendo la maggioranza degli uomini vincolata alla terra. Se è vero che la delocalizzazione attuale mostra una continuità con l’epoca coloniale per quanto riguarda la capacità del capitale di plasmare lo spazio globale a suo vantaggio, limitando i costi da sopportare, dall’altro non si può trascurare come in presenza di determinate condizioni politiche e della posizione nella catena del valore, questa abbia anche offerto ad alcuni Paesi delle possibilità di sviluppo economico possibili solo con la fine del colonialismo classico, pur in un contesto che rimane profondamente diseguale.

Infine, occorre pensare quale sia il posto della Sardegna nella storia dell’Ordine Bianco. La sua posizione appare al limite: se vi sono stati dei sardi che hanno partecipato al colonialismo europeo, dai missionari nelle Americhe in età moderna (Gallinari 2008, Turtas 2009) sino all’emigrazione nelle colonie africane dell’Italia nel XX secolo (Deplano 2017) ma anche in Tunisia tra Ottocento e Novecento (Marilotti 2006), è evidente che la “partecipazione” della Sardegna nel suo complesso non può prescindere dalla sua condizione, visto che le sue condizioni socioeconomiche non le avrebbero mai consentito di avviare un’impresa coloniale in maniera indipendente dall’appartenenza subalterna all’orbita spagnola e italiana.

Per quanto la Sardegna, date le sue istituzioni politiche ed economiche, non sia mai stata una colonia nel senso classico e formale del termine, sappiamo che all’epoca del dominio spagnolo dell’America Latina, fin dal XVI secolo (es. il gesuita portoghese Francisco Antonio nel 1559, citato in Turtas 1990) sino agli scritti rivoluzionari sardi anti-piemontesi di fine Settecento – es. l’inno di Mannu (1795)  e l’anonimo Achille della Sarda Liberazione (1796) – vi è stato chi paragonò la nostra isola alle Indie Americane. Inoltre, è rilevante il fatto che quella che è stata identificata come la prima definizione razziale dei sardi (Mattone 1986) sia stata compiuta dal naturalista piemontese Francesco Cetti (2000 [1765]), ispirato dalle tesi di Buffon sugli indigeni americani.

La collocazione contraddittoria della Sardegna appare evidente nel processo di costruzione dello Stato-Nazione italiano fin dalla Fusione Perfetta, che ne è stato il prologo: dall’orientalismo interno (Schneider 1998, Dickie 1999, Moe 2002) che ha accompagnato l’unificazione italiana alle tesi del razzismo scientifico su sardi e meridionali di fine XIX secolo, emerge il tentativo di giustificare l’esistenza di una disuguaglianza, di certe forme di violenza – dalla lotta al brigantaggio (Conelli 2014) alla repressione del banditismo (Bechi 1914) – e di relazioni di potere asimmetriche entro il corpo della cittadinanza, specialmente nel momento in cui il divario Nord-Sud diventava più ampio che mai con l’emergenza del Triangolo Industriale e le conseguenze diseguali della politica economica protezionista alla fine del XIX secolo. Secondo Anna Curcio (2022), per comprendere la razzializzazione di sardi e meridionali, può venire in aiuto il lavoro di George Rawick (2022 [1972]), per cui il razzismo sarebbe nato in Europa nella fase di transizione dal feudalesimo al capitalismo, in cui è stata in atto una trasformazione dei rapporti sociali tale da richiedere un re-indirizzo della personalità umana: gli europei ora vedono in altri (l’africano da colonizzare) ciò che temevano di vedere in sé stessi; nella paura di somigliare a loro (degli “arretrati”) ne prendono le distanze. In un’Italia al limite tra modernità e arretratezza, tra la bianca Europa e la nera Africa, sardi e meridionali sono stati l’Altro arretrato rispetto a cui la borghesia capitalista del Nord Italia ha potuto riconoscersi come moderna e scaricare su di esso, “la palla al piede”, le colpe del fallito raggiungimento dei centri capitalistici più sviluppati d’Europa.

Dati i fatti differenziali (insularità, distanza e lingua) che distinguono la Sardegna dalla quasi totalità della popolazione italiana pare che i sardi debbano costantemente dare prova della propria italianità, trovando effimera soddisfazione soltanto ponendosi a servizio di interessi localizzati altrove. L’esperienza dei sardi nella Grande Guerra, simboleggiata dalla Brigata Sassari, e quanto ha rappresentato per il nazionalismo italiano in Sardegna – cioè l’ingresso effettivo dei sardi nella nazione italiana tramite il pagamento di un “tributo di sangue” – è in questo senso estremamente significativa, dal momento in cui questo presunto ingresso nella Nazione italiana è avvenuto non con il superamento della razzializzazione dei sardi, bensì con la conferma di esso: le qualità del soldato sardo sono state ascritte alla sua appartenenza etnica, così come descritta da Niceforo e altri. Osservando quanto avvenuto sia durante il fascismo che con il razzismo istituzionale italiano degli ultimi 30 anni, in maniera un po’ provocatoria, potremmo forse dire che i sardi abbiano potuto sentirsi “italiani” e “bianchi” passando dalla razzializzazione propria a quella degli altri, riconoscendosi nella difesa del proprio privilegio di cittadini europei “bianchi” contro i colonizzati neri, gli slavi e gli ebrei prima, poi con gli immigrati del Sud Globale e dell’Est europeo, finendo per occultare la propria condizione subalterna entro lo Stato italiano e di periferia dei centri capitalistici del Nord globale.

“Disfare la razza” in Sardegna può passare attraverso un cambiamento di paradigma: rinunciare all’illusorio orizzonte di una maggiore integrazione nello Stato italiano – e per mezzo dello stesso entro la “modernità” europea – e alla rivendicazione della italianità “tradita” dal governo centrale; riconoscere la propria storia coloniale interna e la propria condizione subalterna al fine di identificarsi con i razzializzati di oggi, attivarsi perché emerga la loro voce a proposito della condizione che essi soffrono nella nostra isola, perché abbia più spazio della propaganda mistificatoria razzista e dell’antirazzismo morale dei media e dei partiti italiani, identificarli come nostri alleati in una comune lotta per l’uguaglianza in un differente ordine europeo e globale.

Bibliografia

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Andrìa Pili

Andrìa Pili

Andria Pili (Cagliari 1990). Laureato in Economia e Finanza con una tesi sul rapporto tra istituzioni e sottosviluppo economico nella storia economica sarda. Già attivista politico-culturale nella gioventù indipendentista sarda e nel comitato studentesco contro le basi militari, autore di articoli e saggi di analisi e divulgazione storica, politica ed economica.