DAL DIALETTO ALLA LINGUA

di Alessandro Derrù

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Quando sentiamo la parola “dialetto”, immediatamente vengono ricondotti ad esso dei tratti distintivi e delle espressioni tipiche di un immaginario identitario cristallizzato in una indefinita stasi atemporale. Ci si ripete spesso che il dialetto non può avere la stessa dignità di una lingua, che con esso non si possono esprimere concetti contemporanei, che è maleducazione parlarlo in pubblico, che diventa incomprensibile nel raggio di pochi chilometri, ma che comunque è degno di una cosiddetta valorizzazione di un patrimonio culturale immateriale; insomma bisogna difenderlo, ma possibilmente in un’altra lingua.

L’impressione che si ha quando si ha a che fare con i “dialetti” è quella di trattare un oggetto minore genericamente inserito in una cultura locale. Già colpevolmente con una legislazione spesso approssimativa, l’identificazione di lingua e cultura avviene nell’immediatezza, senza discernere i due aspetti che presi singolarmente sono apparati strutturali di due mondi coincidenti ma non sempre sovrapponibili. Inevitabilmente il dialetto è “solo” cultura locale e niente più, come un reperto stantio di un museo del territorio poco visitato e mal curato. Difficile dunque esprimere la contemporaneità attraverso di esso, impossibile de-musealizzarlo. Eppure da docente nel laboratorio di sassarese all’Università degli Studi di Sassari, ho cercato di far compiere alla lingua turritana questo passaggio verso il presente, nel tentativo sperimentale di raccontare l’oggi con le nostre parole, le parole della storia dell’area sassarese.

Sebbene da un punto di vista linguistico dialetto e lingua non presentano sostanziali differenze, il rapporto che sussiste tra di essi è tuttavia fortemente condizionato dal prestigio sociale dell’una che investe l’altro e dalle politiche linguistiche che amplificano la dialettica tra subalternità dialettale, dunque locale e regionale, ed egemonia linguistica nazionale. Si parte dunque dall’insegnamento di un oggetto apparentemente privo di credito e svalutato da un giudizio tutto otto/novecentesco di intendere una parlata locale, un oggetto di studio poco consono con l’aula di un’università, di facile scherno, di importanza residuale. Ciò che ci si aspetta da un laboratorio del genere è da parte degli utenti la richiesta di soddisfazione di particolarità culturale tipiche di un tempo ormai superato; “Sa come si chiamava quell’oggetto che serviva…?”. Difficile ricordare o conoscere la nomenclatura completa di un passato perduto. Piacevole è stato invece ritrovarsi nel presente e parlare di “griglia dei playoff della Dinamo Basket”, delle “misure per la prevenzione antincendio secondo la normativa vigente”, di “economia circolare”, di “smart working”, espressioni e termini rigorosamente tradotti in lingua turritana (sassarese). Insomma temi in cui è necessario il passaggio sostanziale che dal dialetto, povero e arretrato, porta alla lingua, degna e meritoria. Con l’utilizzo di una grafia stabile e standardizzata, un passo oggi finalmente possibile, si è avviato un percorso formativo che ha lo scopo di incidere sulla realtà sarda in cui coesistono e si alternano situazioni di diglossia e dilalia, e in cui comunque la lingua italiana rimane, in mancanza di una politica di bilinguismo, il vettore principale per i contenuti formali e istituzionali. L’obiettivo è stato quello di aggirare la caratteristica tendenza perifrastica delle lingue sarde in favore di un approccio al neologismo, seppur ricalcato su una delle lingue europee preesistenti, ad esempio per la parola “computer” si è proposto “urdhinadori” dal francese “ordinateur”.

Non si tratta di una mera operazione di riscatto culturale, quanto di ridiscutere le basi secondo cui all’interno di uno stato solo il monolinguismo possa in qualche modo identificare popolo e senso della comunità (comunità di intenti, nazione). D’altro canto parlare di bilinguismo oggi è forse ancora troppo poco date le dinamiche centrifughe di mescolamento meta-nazionale e sarebbe auspicabile ripercorrere vie di plurilinguismo portate avanti da altre nazioni europee. In ogni caso si tratta di ridare dignità ai dettagli del territorio ed alla sua storia, non sposando un banale etnocentrismo ma facendo emergere le peculiarità del luogo in cui si vive e si opera quotidianamente, per meglio disporne in futuro. Il passo da compiere è quello arduo di percorrere la strada che dal dialetto porta alla lingua, ovvero fuoriuscire da una forzata marginalizzazione per abbracciare un avvenire policentrico e plurilingue

Alessandro Derrù

Alessandro Derrù

laurea in scienze storiche e filosofiche. Attivista politico, studioso della lingua e della cultura turritana, ha insegnato lingua turritana presso il DUMAS dell'Università degli studi di Sassari