IL RICORDISMO COME RIMOZIONE DEI SUBALTERNI E DELLE LORO RAGIONI SPUNTI PER LA DECOLONIZZAZIONE DEL DIBATTITO SU MEMORIA, RICORDO E STORIA

di Cristiano Sabino

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Cos’hanno a che fare il presunto eroismo degli alpini in Russia durante la seconda guerra mondiale, la giornata che ricorda i “martiri delle Foibe”, la proposta del neo presidente del Senato di far diventare la data della nascita del Regno d’Italia “festa nazionale” e l’inserimento nella Costituzione del dovere di parlare solo la lingua italiana? Cosa si nasconde dietro le tante giornate del ricordo e della memoria che da decenni costellano il calendario delle nostre attività civili? Cosa vuol dire ricordare, quando a selezionare contenuti e modalità del ricordo ufficiale, non è un dibattito democratico fondato su premesse critiche, ma la ragione coloniale? I ricordi di Stato sono dovuti atti super partes finalizzati a rammentare il sacrificio delle vittime o piuttosto assumono gli inquietanti lineamenti di un potente dispositivo di potere che mira a reiterare e rinverdire – sotto altre sembianze –  quello stesso dominio che fece sanguinare i corpi e le anime di quelle medesime vittime?

C’è sempre da essere vigili quando siamo in presenza di celebrazioni ufficiali di eventi o soggetti storici (individuali o collettivi), soprattutto se a monte non si è sviluppato un dibattito critico sulle ragioni e sulle prospettive che le nutrono e le orientano.

Quando si istituisce una giornata del ricordo, della memoria o quando le istituzioni richiamano all’attenzione pubblica un fatto o una serie di vicende, è sempre salutare interrogarsi sulla ratio che presuppone la cernita di tali eventi, sottratti allo studio privato e fatti ascendere nel pantheon laico delle celebrazioni di Stato. Bisogna insomma sempre domandarsi, non tanto cosa si voglia fare emergere dal profondo della memoria, quanto piuttosto cosa si voglia rimuovere e far sprofondare nell’oblio.

Sembra paradossale, però, il più delle volte, quando siamo di fronte a rievocazioni e ricorrenze festeggiate a livello istituzionale, si crea infatti un cortocircuito narrativo che presenta come subalterno, perseguitato e valorialmente positivo ciò che in realtà risulta storiograficamente preponderante, in posizione di dominio e quantomeno discutibile sotto il profilo etico-politico.

A questo ribaltamento se ne aggiunge un altro, se possibile ancora più insidioso, da decostruire sul piano teorico e storiografico.

L’obiettivo dichiarato del ricordo istituzionale e della memoria veicolata a colpi di circolari ministeriali è ufficialmente sempre quello di ricostruire la conciliazione e la ritrovata unità laddove la storia presenta il conflitto, l’aporia, la dialettica, la lacerazione civile.

Una finalità altamente nobile, almeno in via di principio, difficile da criticare e decostruire, se non si vuole passare immediatamente per chi, a distanza di anni, vuole procrastinare lo iato e riaprire vecchie ferite del passato che nessuno vorrebbe tornassero a sanguinare.

Però, dietro al nobile tentativo di ricostruire un’identità condivisa e pacificata e di superare in termini dialettici le storture e i conflitti del passato in nome di una ritrovata unanimità, si nasconde spesso l’obiettivo di fare prevalere – tramite la forza celebrativa del ricordo di Stato – una tesi storica su un’altra, in un contesto in cui la dialettica che si rievoca evidentemente non è mai del tutto riassorbita e, di fatto, continua ad agire.

Con la mano sinistra si officia dunque il ricordo, la memoria, la celebrazione delle vittime, mentre con la destra si prosegue il lavoro per consolidare quella tesi che nel passato ha dominato, oppresso, aggredito e schiacciato i corpi e le anime degli oppressi e dei subalterni.

Che spesso venga utilizzato proprio il ricordo straziante delle vittime per realizzare questa implicita finalità di dominio, fa parte dell’arte del ricordo imperiale e coloniale, inteso come strumento egemonico proprio di un dato sistema di potere che si auto alimenta appunto rappresentandosi non solo come giusto, equo e garante dei diritti di tutti nel presente, ma anche come angelo vendicatore delle sofferenze e delle angherie che nel passato hanno dovuto subire gli ultimi, i diseredati, i subalterni.

Ma dietro a questa grandiosa ed efficace macchia di prestigio fondata sulla memoria, si nasconde un artificio retorico abbastanza grossolano, facilmente smascherabile. Il potere celebrante il martirio della storia si mostra sempre in discontinuità con il potere che un tempo commise i misfatti, anche laddove la discontinuità è tutta da dimostrare. Ciò per esempio accade con le celebrazioni delle stragi (in particolare nel contesto del ricordo della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980), non a caso accompagnate da feroci e comprensibili polemiche da parte delle associazioni delle vittime che contestano le reticenze e i colpevoli silenzi da parte del sistema politico e individuano nella classe dirigente (trasversalmente intesa) la principale causa di copertura e occultamento di informazioni utili a risalire ai veri mandanti della strage. Oppure – il che accade ormai sempre più spesso – il sistema di potere che celebra il ricordo, seleziona accuratamente alcuni eventi storici e alcune categorie di vittime dal passato, per mascherare le responsabilità e i misfatti e per esaltare i meriti di quella parte che, in un modo o nell’altro, viene percepita come propria antesignana. Ne parlerò analiticamente nella seconda parte dell’articolo, ma per capire cosa intendo faccio subito un esempio: celebrare il sacrificio e l’eroismo degli alpini coinvolti nell’operazione Barbarossa di invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania, dell’Italia e dei loro alleati, vuol dire, di fatto, nascondere la sofferenza di milioni di persone travolte dalla barbarie nazifascista e, di fatto, giustificare l’invasione da parte dell’esercito italiano di un paese neutrale.

L’avvicendarsi del colore dei governi non cambia il segno di questo processo: periodicamente vengono istituite, dalle maggioranze di ogni colore politico, giornate della memoria e del ricordo, ma esse hanno più a che fare con il consolidamento dell’attuale egemonia nazionalista e neocoloniale che con la necessità di sottrarre dall’oblio il sacrificio delle vittime.

L’utilizzo strumentale e squisitamente politico della storia da parte di ben definite élites si basa, quasi esclusivamente, su un trucco di prestigio che, in fin dei conti, scambia faziosamente la storia con la memoria.

Che storia e memoria non siano la stessa cosa ma anzi siano processi di recupero e selezione di frammenti provenienti dal passato, divergenti e addirittura opposti sotto più aspetti, è cosa notoria a chiunque mastichi le fondamenta della ricerca storiografica.

È infatti, per esempio, impossibile ricostruire la storia del colonialismo italiano usando la memorialistica dei coloni o – solo per fare un esempio di una memoria illustre scambiata a lungo, almeno nel dibattito pubblico, come verità storica – gli articoli di Montanelli. Tali ricostruzioni memorialistiche del fenomeno coloniale danno ovviamente una visione edulcorata, auto assolutoria e, in fin dei conti, tendono a giustificarla.

Montanelli per esempio ha sempre negato che gli italiani in Africa abbiano massicciamente usato l’iprite e atri gas vietati dalle convenzioni internazioni. La negazione era ribadita ostinatamente sulla base di ricordi personali dell’esperienza coloniale, ma la ricerca d’archivio ha ormai confermato questo dato storico: gli italiani hanno utilizzato questo tipo di armi e tutti i livelli di comando, fino ai massimi vertici, erano informati e consapevoli del fatto.

Storia e memoria divergono necessariamente e allora chi vuole veicolare una narrazione dove gli italiani – nei contesti delle guerre coloniali e/o di aggressione – passano per lo più per “brava gente”[1] o – addirittura per vittime, si affiderà alla memoria (selettiva per antonomasia) e non alla storia.

La formazione dello Stato unitario, il periodo coloniale, la partecipazione alle guerre d’aggressione, il ruolo dominante di una precisa parte geografica dello Stato, la genealogia centralista, colonialista, imperialista dello stesso, rappresentano i nodi gordiani su cui interviene sistematicamente questo maquillage pseudo-storico, questo dispositivo egemonico, questa narrazione ricordista che confonde e rende labili i confini tra memoria e storia ad uso e consumo di precisi gruppi di potere e di una determinata narrazione i cui obiettivi sono rivolti esclusivamente non ad esorcizzare la coazione a ripetere nel presente dei disastri del passato, bensì ad assolvere, rafforzare e validare quello stesso dominio causa, in passato, di catastrofi, brutali repressioni, eccidi e genocidi.

Sono davvero tanti gli esempi da fare per rendere visibile l’impalpabile dispositivo dominante di quello che da questo momento in poi chiameremo ricordismo.

Partiamo dalla festa del 4 novembre, istituita con Regio decreto n.1354 il 23 ottobre 1922 e tutt’oggi accettata dalla Repubblica, per ricordare l’Armistizio di Villa Giusti e la “vittoria” italiana nella prima guerra mondiale. Sulla pagine del Ministero della Difesa [ https://www.difesa.it/Primo_Piano/Pagine/verso_4_novembre_2020_perche_festivita_nazionale.aspx ] si legge quanto segue:

«L’impegno militare lungo il confine nord-orientale, dallo Stelvio agli altipiani d’Asiago, dalle Dolomiti all’Isonzo e fino al mare, fu la testimonianza di quel profondo sentimento di amor di Patria che animò i nostri soldati e gli italiani in quegli anni.

L’Italia dimostrò di essere una Nazione e alimentò questo senso di appartenenza con la strenua resistenza sul Grappa e sul Piave, fino alle giornate di Vittorio Veneto.

Per onorare i sacrifici dei soldati caduti a difesa della Patria il 4 novembre 1921 ebbe luogo la tumulazione del “Milite Ignoto”, nel Sacello dell’Altare della Patria a Roma.

Con il Regio decreto n.1354 del 23 ottobre 1922, il 4 Novembre fu dichiarato Festa nazionale.

Oggi, ai Caduti di tutte le guerre, in occasione del 4 novembre e nei giorni immediatamente precedenti, le più alte cariche dello Stato rendono omaggio recandosi nei Luoghi della Memoria.

Le Forze Armate, ricordando la raggiunta unità nazionale, onorano il sacrificio di oltre seicentomila Caduti e di tante altre migliaia di feriti e mutilati, con sentimento di gratitudine che la festa del 4 novembre vuol mantenere vivo poiché è dall’esperienza della storia che nascono i valori irrinunciabili di una Nazione. Il significato del ricordo della Grande Guerra non è quello della celebrazione di una vittoria, o della sopraffazione del nemico, ma è quello di aver difeso la libertà, raggiungendo una unità tanto difficile quanto fortemente voluta».

Bastano anche solo le prime righe per rendersi conto del funzionamento del dispositivo ricordista così come lo abbiamo descritto fino a questo momento: la mattanza di centinaia di migliaia di contadini e proletari, specie del sud Italia e della Sardegna, mandati al macello senza alcuna ragione, viene letta ancora oggi come la «testimonianza di quel profondo sentimento di amor di Patria che animò i nostri soldati e gli italiani in quegli anni». Ovviamente non una parola sul fatto che la dichiarazione di guerra dell’Italia agli Imperi centrali fu conseguenza di una accordo segreto e illegale di alcune personalità del Governo, sottoscritto a Londra, senza nemmeno consultare il Parlamento che in larga maggioranza era neutralista. Non una menzione sul fatto che la guerra da parte italiana fu un atto di aggressione finalizzato non al raggiungimento dell’unità nazionale (che sarebbe stato garantito senza sparare un colpo e senza versare una goccia di sangue da un trattato con l’Austria in cambio della neutralità) ma per allargare il dominio coloniale verso la Dalmazia e partecipare alla spartizione delle colonie degli Imperi centrali. Non una parola sulle folli delibere degli Stati maggiori e in particolare del generale Cadorna che mandò a morire centinaia di migliaia di uomini senza alcun motivo, solo per non mettere in discussione strategie militari obsolete e falsificate da tutti i dati forniti dall’esperienza dei primi assalti. Non una parola sulle decimazioni, sulle crudeltà, sugli ormai documentati episodi criminosi compiuti dai vertici militari ai danni di soldati e ufficiali.

Questo testo ministeriale – che poi diventa contenuto egemonico di circolari scolastiche, base di documentari televisivi, velina per articoli e servizi commemorativi – rende chiaro, più di tante analisi decoloniali, come agisce il dispositivo del ricordismo: fare emergere frammenti ben selezionati dal passato al fine di occultarne e sommergerne altri, cioè al fine di convalidare un’egemonia presente, in questo caso il militarismo, lo sciovinismo e la tendenza coloniale italiana.

Assai più recente e passata del tutto in sordina è la «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini»  [ https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2022-05-05;44 ], istituita lo scorso 5 maggio 2022, con legge  n. 44, dal governo di larghe intese (tutti i partiti, dai 5Stelle al PD, alla LEGA a Forza Italia con la sola eccezione di FdI) al «fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato  dal  Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante  la  seconda guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della  difesa  della sovranità  e  dell’interesse nazionale, nonché dell’etica, della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano».

Prescindendo dall’idea metafisica e piuttosto agiografica di un corpo militare che possa incarnare, sub specie aeternitatis, valori etici e civili, anche in questo caso è evidente l’obiettivo manipolatorio e distorcente del ricordismo di Stato.

Basta chiedersi cosa ci facevano gli alpini in una località chiamata Nikolajewka per smantellare l’impianto vittimista del dispositivo ricordista. E soprattutto basta domandarsi quale «sovranità  e  interesse  nazionale» potevano difendere i soldati italiani in una guerra di asservimento e sterminio lanciata dal nazismo ai danni delle popolazioni slave di cui gli italiani erano infami gregari.

Ricordare il coraggio metafisico degli alpini non significa altro che obliterare l’aggressione dell’Italia ai popoli dell’Unione Sovietica, al fianco del nazionalsocialismo e del progetto segregazionista e genocida che ne costituiva le fondamenta teoriche e politiche. In questo circuito vizioso della narrazione, basata su memorialista faziosa e su tracce di microstoria selettiva e reticente, gli aggressori diventano aggrediti, le mire imperiali virtù etiche e dianoetiche e i dominanti subalterni da legittimare attraverso il vittimismo e la retorica della celebrazione di Stato.

Al medesimo schema obbedisce la Giornata del Ricordo «in memoria – così recita il testo della legge – delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati». La data dedicata ai «martiri delle Foibe» ricorre il 10 febbraio, è istituita dalla legge n. 92/2004 da un governo di destra, ma subito sostenuta e veicolata da tutto l’arco costituzionale, a dimostrazione del carattere integrale del dispositivo ricordista. Anche in questo caso, un’accurata selezione di alcuni specifici episodi violenti commessi dai partigiani jugoslavi verso alcune centinaia di italiani (in buona parte compromessi direttamente o indirettamente con l’occupazione fascista) serve non tanto a ricordare il dolore patito dalle vittime o a condannare in generale la guerra che porta con se sempre ingiustizia, orrore e disastri a tutte le parti coinvolte, quanto a rimuovere la sistematica e pluridecennale opera di pulizia etnica compiuta dall’Italia liberale prima e fascista nei territori del confine orientale (da Gorizia a Trieste, fino a Fiume e a Pola), i crimini di guerra compiuti dall’esercito italiano nel periodo dell’occupazione della Jugoslavia e a screditare l’unica resistenza europea capace di contrastare senza alcun aiuto esterno il nazifascismo[2]

Le recenti iniziative del governo Meloni hanno impresso una accelerazione e una marca smaccatamente identitaria all’utilizzo del dispositivo ricordista, ma allo stesso tempo si inseriscono pienamente nel solco di una lunga e trasversale tradizione ad una sola voce. Basta ricordare la composizione politica del Governo Draghi che, come abbiamo avuto modo di vedere, ha approvato nel maggio scorso, la giornata del coraggio degli alpini in Russia, vale a dire un Governo sostenuto da tutti i partiti, tutti tranne quello che esprime l’attuale presidente del Consiglio. Non è dunque necessario essere gli eredi diretti del Movimento Sociale Italiano, ovvero del partito che ricostituì il fascismo sotto mentite spoglie per aggirare la legge Scelba, per coprire e giustificare la partecipazione italiana all’aggressione nazista verso i popoli dell’Unione Sovietica. Il dispositivo ricordista dimostra, con ogni evidenza, il suo carattere trasversale, generalizzato e integrale grazie ad una narrazione totalitaria che non prevede critiche o voci fuori dal coro.

Ma andiamo al Governo in carica. È singolare e fa riflettere che fra le prime tematiche agitate dal Governo Meloni, in una fase politica e geopolitica che certo non lesina preoccupazioni di enorme portata, dalla guerra in Ucraina al cambiamento climatico, fino alla gravissima situazione sociale determinata dal carovita e dal caro energia, siano state proprio pulsioni squisitamente ricordiste.

Il ricordismo sta al centro delle preoccupazioni del discorso inaugurale [https://www.repubblica.it/politica/2022/10/13/news/la_russa_presidente_senato_discorso_ringraziamenti-369847680/ ] del neo presidente del Senato Ignazio La Russa, in apertura della XIX legislazione al Senato. In questa occasione il presidente del Senato non ha perso l’occasione per auspicare «ricordi e celebrazioni capaci di unire e non dividere», proponendo di annoverare tra le festività istituzionali – a fianco del 25 aprile e del 1 maggio – la «data di nascita del Regno d’Italia che prima o poi dovrà assurgere a festa nazionale. Queste date tutte insieme vanno celebrate da tutti perché solo un’Italia coesa e unita è la migliore precondizione per affrontare ogni emergenza e criticità».

Evidentemente la festa della Repubblica (2 giugno) e la giornata dell’unità nazionale e delle forze armate (4 novembre) non erano sufficienti a celebrare il carattere “unitario e indivisibile” (art. V Costituzione) dello Stato. Serve un’altra festa, ma non tanto per esaltare l’anniversario dell’unificazione regia, quanto per ricacciare nel dimenticatoio la cosiddetta “lotta al brigantaggio” che in realtà fu una vera e propria guerra civile, «ma fu anche una guerra di tipo coloniale, che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle poi combattute in Africa»[3] e a zittire quegli storici che insistono a ricordare il pessimo esordio di quell’unità che ora si vorrebbe annoverare a festa nazionale:

«Non era un bell’inizio, per l’Italia, questo processo di unificazione, che si attuava con plebisciti farsa, con annessioni forzate che violavano ogni norma del diritto internazionale, con l’istituzione di campi di concentramento, con la pacificazione del Meridione realizzata con lo stato d’assedio permanente, i tribunali militari, le fucilazioni sommarie»[4]

La rimozione di letture alternativa alla narrazione ufficiale sui capisaldi del sistema dominante deve essere integrale e totalitaria e si deve allargare oltre i confini della storia d’Italia. In questa direzione va la lettera del neoministro dell’Istruzione e del Merito Valditara agli studenti e alle studentesse sull’«esito drammaticamente fallimentare del Comunismo». Il ministro ricorda agli studenti che il Parlamento italiano ha istituito il 9 novembre la “Giornata della libertà”, istituita con legge n. 61 del 15 aprile 2005 e il cui testo risulta cristallino nelle sue intenzioni selettive e reticenti: «la Repubblica italiana dichiara il 9 novembre Giorno della Libertà quale ricorrenza dell’abbattimento del Muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo».

Valditara nella sua lettera [ https://www.miur.gov.it/-/lettera-del-ministro-valditara-agli-studenti-per-il-giorno-della-liberta-il-crollo-del-muro-ci-restitui-un-europa-libera-e-democratica-non-dimentich-1 ] esplicita però alcuni passaggi teorici della legge, dichiarando che «il crollo del Muro di Berlino segna il fallimento definitivo dell’utopia rivoluzionaria. E non può che essere, allora, una festa della nostra liberaldemocrazia». Dunque il crollo dei muri e dei totalitarismi non è questione da ricordare – e dunque festeggiare – per il suo valore intrinseco, ma piuttosto per la fine dell’«utopia rivoluzionaria» e per il trionfo della «nostra liberaldemocrazia» rimasta finalmente priva di competitor. L’uomo ad una dimensione della libertà occidentale (rigorosamente bianco, benestante e privilegiato) festeggia non tanto il fragore dei muri e dei regimi che crollano – perché nel mondo controllato dalla liberaldemocrazia i muri, ben più lunghi e spessi di quello di Berlino e i regimi dittatoriali, teocratici, e antidemocratici continuano a venire costruiti e generosamente sostenuti se funzionali alle stesse liberaldemocrazie – quanto la fine dell’idea stessa un’alternativa politica al sistema capitalistico, imperiale e di tipo coloniale costituito dal cosiddetto blocco atlantico.

Last but not least arriva il ddl per ricordare che la lingua dello stato italiano è l’italiano [ https://www.ilgiornale.it/news/interni/lingua-italiana-entri-costituzione-fratelli-ditalia-presenta-2086449.html ]. Una proposta che ha sorpreso molti commentatori, colpiti dal carattere lapalissiano del disegno di legge proposto dal senatore Roberto Menia che mira a specificare – nel contesto dell’articolo 12 della Costituzione – che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica e pertanto «tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla».

Ricordare che entro i confini dello Stato italiano si parla la lingua italiana, serve in realtà – come del resto lo stesso Menia tiene a precisare – a ridimensionare notevolmente, con tendenza all’azzeramento e all’annichilimento, tutte le lingue non italiane «di comunità minoritarie in antitesi alla lingua comune».

Lo schema ricordista fondato sul ribaltamento retorico tra oppressori e oppressi regge dunque anche nel contesto in cui oggetto del ricordo non sono eventi storici. La lingua italiana viene presentata come vittima di una presunta opera di cancellazione, quando è notorio che avviene esattamente il contrario, come per esempio nel caso della Sardegna dove vige un regime di quasi totale monolinguismo, nonostante tutte le norme statali e regionali finalizzate alla salvaguarda del sardo e delle altre lingue di Sardegna (turritano, gallurese, algherese e tabarchino).

Anche in questo ultimo caso il ricordismo assolve la sua funzione politica precipua e cioè quella di esercitare un determinato dominio politico e culturale in maniera integrale e totalitaria, di cancellare ogni altra opzione alternativa a quella funzionale alla ragione coloniale e di presentare la tesi vittoriosa e dominante come fragile, meritevole di protezione, in pericolo e minacciata da più parti. Il ricordismo è un dispositivo tanto grossolano quanto efficace e consiste, in fin dei conti, in una sorta di macchina per il rovesciamento sistematico e totale tra le ragioni dei dominanti e le ragioni dei subalterni a tutto beneficio dei vincitori e dei dominanti e finalizzato alla rimozione e al silenziamento dei subalterni.

Conoscere le meccaniche del dispositivo ricordista è essenziale non tanto per riequilibrare il discorso storiografico e per portare sufficienti elementi sul tavolo della discussione accademica, quanto per non subire, nel presente, la narrazione dei gruppi sociali e politici dominanti e, sostanzialmente, non andare disarmati alla lotta contro il loro progetto totalitario.

Note:

[2] Per approfondire il tema v. Eric Gobetti, E allora le foibe?, Editori Laterza

[3] Angelo del Boca, Italiani Brava gente, Beat, 2005 p. 55

[4] Ivi, p. 66, v. anche La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, 1994 di Carlo Alianello

Cristiano Sabino

Cristiano Sabino

è dottore di ricerca in filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, attivista politico, già portavoce e tra i fondatori dell’organizzazione A Manca pro s’Indipendentzia. Insegna filosofia e storia a Sassari. Ha pubblicato Falce e pugnale. Per un socialismo di liberazione nazionale (2019).