LA PORTA DI KANAFANI LOTTA DI LIBERAZIONE, LOTTA CONTRO LA VITA – PARTE 1

di Samed Ismail

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Il dramma della costruzione della Torre di Babele senza Dio, del tentativo di portare il cielo sulla terra, è rappresentato da Kanafani in un’opera teatrale del 1964, La Porta[1]. La seguente lettura, divisa in due parti, sarà per forza di cose parziale e non esaustiva, essendo il testo preso in esame estremamente complesso e ricco di tematiche filosofiche e politiche.


Il dramma riprende un’antica leggenda araba.

Sciaddad, re di una tribù di Al-Ahkaf, sfida il dio Huba, costruendo la città di Iram «un paradiso sulla terra».
Il curatore di questa edizione italiana sottolinea:

La parola Palestina non compare. Ma il paradiso, da conquistare, ha in realtà, sempre per l’autore, questo nome.

Effettivamente il ritorno al paradiso, il paradiso perduto, è un topos della coscienza e della letteratura palestinese. Anche il sommo poeta Mahmud Darwish si serve della metafora Palestina-paradiso:

“È il paradiso perduto?”

“Attento a usare questo termine. Perché convincersi di ciò sarebbe arrendersi a uno stato legale ed esistenziale già bell’e finito. La differenza tra paradiso perduto nel senso assoluto del termine e nel senso palestinese risiede nel fatto che la nostalgia e l’appartenenza psicologica e giuridica nel primo sono privi della dimensione conflittuale del secondo. Finché dura la  battaglia il paradiso non è perduto, anzi è occupato e riconquistabile.”[2].

L’obiettivo polemico è la visione romanticizzata della Palestina, che è uno degli ostacoli principali sulla via della liberazione. Una certa impostazione narrativa della questione palestinese segue uno schema religioso: la Nakba è la cacciata dal paradiso terrestre, il periodo precedente al 15 maggio 1948 è un’età dell’oro irrimediabilmente perduta. L’inconsistenza storica di una simile ricostruzione è evidente; lavori come quello dello stesso Kanafani sulla rivolta del ‘36-‘39 mostrano come la “catastrofe” andrebbe retrodatata di almeno dodici anni. Tuttavia bisogna tenere presente che la storia degli storici, la storia effettiva e la sua rappresentazione sociale sono tre termini diversi. La Nakba come rappresentazione dei fatti del 1948 era necessaria, dopo il trauma subito, per lo sviluppo effettivo della storia e per la ripresa dei palestinesi, come sono necessari i miti nella storia di ogni popolo. L’efficacia della Nakba come collante per l’unità della Palestina in ogni sua compagine è innegabile. Nonostante ciò, dopo 74 anni, la questione andrebbe rivista.

Non c’è nessun paradiso al quale tornare, c’è un paradiso da riconquistare ma soprattutto da ricostruire. Sciaddad ha continuato la lotta del padre contro Huba, rifiutando la promessa del paradiso. Il paradiso non si può ottenere per gentile concessione, ma va costruito; solo la creazione fa capire «che il paradiso non meritava l’obbedienza, che Huba non meritava dal mio popolo tutti questi sacrifici, questa gloria». Non si può non pensare a quell’inganno che è oggi lo “Stato Palestinese”, che Kanafani non ha conosciuto.

“Mi sono costruito il mio paradiso. Ma ho paura di entrarvi, ne sono disgustato, non è più una gran cosa per me. Io non voglio vivere per abitudine, non voglio fare figli perché non vi è niente di straordinario: il topo lo fa umilmente. Perché dunque, vive ciascuno di noi?”.

La metafora Palestina-paradiso, invece che intrappolare la questione entro confini nazionali, a partire dal caso concreto dei colonizzati, apre una serie di interrogativi sull’esistenza in generale: che senso ha liberarsi dall’oppressione se si aspira alla vita del colonizzatore, se si aspira ad entrare nel suo paradiso? Che cos’è poi questo paradiso? La vita promessa nel paradiso, sia quello imposto dal dio o quello che l’uomo ha edificato da sé, ricade sempre nell’insensatezza. Nel secondo atto, è sviluppata una riflessione esistenziale dal sapore leopardiano. Sciaddad dipinge la vita come un gioco svuotato di serietà, un gioco a cui si è stancato di giocare. Come nella teoria di Leopardi si arriva alla vanità del tutto passando attraverso il piacere:

Attimo dopo attimo ho raccolto ogni possibilità di soddisfazione bestiale. […] Non vi trovo più alcun piacere. Anche se vi trovassi piacere per un solo miserabile attimo, esso non potrebbe in alcun modo giustificare la mia esistenza.

Solo a questo punto subentra la noia, l’insofferenza per una vita trascinata per abitudine. Quando il figlio Marthad lo accusa di essere pessimista Sciaddad replica così:

Queste sono parole vecchie quanto la menzogna. Non vedi che il pessimismo è coraggio? Non vedi che l’ottimismo è menzogna, fuga e viltà? Tu sai bene che la vita è spregevole e cattiva. Perché speri ancora in essa? Tu sai bene che il paradiso che Huba ti promette non merita tutte queste sofferenze. (Indica la finestra). Io ti do un paradiso che tu puoi vedere con i tuoi occhi, perché dunque non mi adori? Perché tu lo conosci e mi conosci. Perciò rifiuti. Vuoi compensare le tue pene con la ricerca dell’ignoto, dell’invisibile, dell’irreale. Ma io non mi sento più attratto dall’ignoto[3].

Il titanismo di Sciaddad però va oltre la contemplazione dell’ “arido vero”, il posizionamento sulla linea del nichilismo, e tenta l’attraversamento:

SCIADDAD Siamo tutti venuti in questa vita nostro malgrado. Poi abbiamo cominciato a cercare una giustificazione. Ed abbiamo inventato Huba e gli abbiamo eretto una statua di un bianco radioso tra le nostre case. Poi abbiamo inventato l’uomo, quindi ci siamo detti che la giustificazione della nostra vita stava nella libertà di scegliere. Menzogna, Menzogna!
Dimmi, Marthad, cosa puoi scegliere. La tua cena! La donna con cui fare l’amore! Forse puoi scegliere quanto è veramente importante? Voglio dire puoi scegliere il momento? Sì, il momento! Pensaci bene: il momento! Puoi sceglierlo? Forse che tu hai scelto il momento in cui sei stato felice o infelice? Ed è in tuo potere scegliere il momento in cui desideri essere felice o infelice?
Cosa dunque resta da scegliere?
MARTHAD (con calma) La vita, visto che non possiamo fare a meno di opporla alla morte.
SCIADDAD Affatto! La morte, la morte. Ecco la sola vera scelta che rimane a noi tutti. Tu non puoi scegliere la vita poiché essa ti è donata all’origine, e il dono non contempla la scelta. La morte è la vera scelta se la scegli al momento che ti conviene prima che ti sia imposta in un momento in cui non la desideri, prima che tu sia spinto ad essa per cause che non puoi prevedere come la malattia o la sconfitta o il terrore o la miseria. È l’unico rifugio che resta all’unica estrema e vera libertà!

Per spiegare il perché della morte come scelta veramente libera occorre tornare indietro alla premessa del dramma.

Lì si dice che il protagonista è discendente di Noè. La lotta contro il dio nasce proprio da questa discendenza. Infatti secondo Ad, padre di Sciaddad e re prima di lui, Noè aveva dato la terra a Huba in cambio della propria salvezza. Senza quest’atto di sottomissione il diluvio non avrebbe potuto avere luogo. Noè sarebbe dunque il padre di una genia che ha barattato la terra e la libertà per la sicurezza e la sopravvivenza.

Quello di ueQqQQQAd, e poi di suo figlio, è il tentativo di riscattarsi dal peccato originale dell’antenato.
Trovandosi la città di Al-Ahkaf colpita dalla siccità Ad invia una delegazione a pregare gli dei della Mecca affinché mandino la pioggia, con la convinzione che riuscendo a ottenere l’acqua senza l’aiuto di Huba questo sarebbe morto.

L’acqua del diluvio, che ha suggellato il patto tra l’uomo e dio, diventa l’elemento in grado di spezzare quello stesso patto. Questo cambiamento di stato dà luogo ad un ulteriore passaggio, che oppone la vita materiale a quella interiore, poiché la sete dovuta alla siccità diventa sete di qualcosa che trascenda, che vada oltre la vita materiale come perpetua riproposizione di se stessa[4]. Perciò abbiamo due coppie opposte: Terra e libertà da una parte, obbedienza e vita dall’altra.

La terra – la terra che Noè ha venduto al dio, sia Iram, che la Palestina- può essere riconquistata solo opponendosi alla vita, intesa sia in senso biologico, sia nel senso liberal-capitalistico di assuefazione al piacere, sia come vita che per mantenersi al sicuro nella sopravvivenza ha rinunciato alla lotta. La libertà sfida l’obbedienza trascurandone le sue forme contingenti, mirando alla scelta decisiva. La libertà non esige una vita tranquilla, magari all’interno di un’oasi felice, perché sa che finché esisterà un’autorità che nega la scelta alla base, la libertà e la terra saranno minacciate. O il dio o l’uomo, non ci sono mezze misure. 

Sciaddad sa che ritornando al suo paradiso incontrerà la morte, nonostante ciò decide di andare incontro al suo destino e viene annientato da Huba.

Il quarto atto si svolge nell’aldilà. Questo aldilà è molto diverso dal paradiso che ci si era immaginati,  risulta essere sostanzialmente un duplicato della vita terrena. Huba fa la sua comparsa, nelle fattezze di un attraente giovane, per soddisfare la sete di Sciaddad in un ultimo scontro dialettico:

HUBA Ti sei suicidato?
SCIADDAD (meravigliato) Come lo sai?
HUBA Così parla soltanto uno che si è suicidato. Egli viene ad incontrarmi senza paura, dì pure, se vuoi, senza eccessiva paura. Infatti ha già conosciuto la paura più grande, la paura di voler morire.
SCIADDAD  La paura della morte?
HUBA No, della volontà di morire. La morte in sé e per sé non vi fa paura. Voi non ci credete, non pensate nemmeno che verrà da voi, prima o poi. Ma la volontà della morte è il coraggio di guardarla in faccia e di credere che esista.
SCIADDAD Ma io non volevo esattamente la morte. È vero che la cercavo sul serio, ma solo nella speranza di combattere.
HUBA Combattere chi?
SCIADDAD Combattere te.   
La ricerca della morte non è dunque animata dalla volontà di annullamento e di rinuncia alla vita, bensì da una volontà combattiva che si oppone ad un modus vivendi che di fatto corrisponde alla morte in vita. Una riflessione di questo tipo è significativa in un’epoca in cui le lotte non sono più combattute contro un dio, uno Stato, una classe, o qualsivoglia nemico, ma in nome della vita.

Il marxismo – perché di un pensatore marxista stiamo parlando – non ha mai propagandato la lotta per la vita, all’opposto, il suo metodo porta a una lotta contro la vita. Alla base c’è il disprezzo della forma di vita borghese, c’è la scelta di un modo preciso di vita a discapito della vita in generale. Questo punto di vista esistenziale è certamente in contrasto rispetto al liberalismo che elegge la vita a valore supremo, al di sopra di libertà, uguaglianza e fraternità, che sono valori solo perché possono essere barattati con la sopravvivenza. Il liberalismo, nella sua fluidità, abbraccia tutta la vita, ritiene preferibile vivere in prigione, in esilio, piuttosto che rischiare la vita per un ideale e per la propria terra. Il marxismo invece non crede che la vita abbia valore in quanto tale, ma solamente in quanto degna di essere vissuta. Per raggiungere questa dignità la vita deve negare se stessa, deve rifiutare di vendere il proprio diritto per mantenersi, deve cercare la morte, idealmente e fisicamente. Il militante marxista dice all’oppresso: «Lascia la tua vita. La sopravvivenza è miserabile. La morte nella lotta è preferibile». Lottare per la vita genericamente intesa non è una strada percorribile, visto che la sopravvivenza è garantita entro i limiti prescritti; per la vita va ricercato un senso. Il senso non può essere ricavato da dati economici e da formule, né dal piacere edonistico.

Note:

[1] In Palestina dimensione teatro, Ripostes, p. 17.

[2] M. Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli, p. 18.

[3] Per dare la misura delle affinità tra questa riflessione di Kanafani e quella di Leopardi, che pur non si può analizzare qui nel dettaglio. Cfr. Leopardi, Zibaldone, 1464: «L’animo umano è così fatto ch’egli prova molto maggior  soddisfazione di un piacer piccolo, di un’idea di una sensazione piccola ma di cui non conosca i limiti, che di una grande, di cui veda o senta i confini. La speranza di un piccolo bene, è assolutamente maggiore di un bene grande già provato. […] L’incertezza se una cosa sia o non sia del tutto, è pur fonte di una grandezza, che viene distrutta dalla certezza che la cosa realmente è. […] Quindi l’ignoranza, la quale sola può nascondere i confini delle cose, è la fonte principale delle idee indefinite. Quindi è la maggior sorgente di felicità…»; Leopardi, Zibaldone, 1549: «Quando gli uomini sono ben conosciuti non è possibile sentir niente per loro; ogni moto del cuore è languido, e oltracciò si estingue appena nato. L’affetto è incompatibile colla conoscenza della malvagità dell’uomo e della nullità delle cose umane.».

[4] Sciaddad dice: «perfino Iram non ha potuto spegnere la mia sete e farmi sentire appagato».

Samed Ismail

Samed Ismail

25 anni, nato a Cagliari, membro dell'Associazione Sardegna-Palestina e dei Giovani Palestinesi d'Italia. Laureato in Filosofa e iscritto alla Magistrale di Storia e Società presso l'Università di Cagliari.