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RECENSIONE DI: DAVID GRAEBER – DAVID WENGROW, L’ALBA DI TUTTO. UNA NUOVA STORIA DELL’UMANITÀ, MILANO, RIZZOLI, 2022 (ED. OR. 2021, TRADUZ. ROBERTA ZUPPET)
Introduzione
Uscito in originale nel 2021, a pochi mesi dalla morte prematura di David Graeber (1961-2020), L’alba di tutto è un testo importante, ineludibile per contenuti e per metodo, specie in una prospettiva di emancipazione decoloniale delle scienze umane.
Gli autori sono un antropologo sociale, attivamente impegnato nei movimenti popolari del primo ventennio del secolo, e un archeologo accademico. Partita come un gioco intellettuale e un dialogo interdisciplinare, questa collaborazione tra studiosi si è trasformata, nell’arco di dieci anni, in un complesso lavoro di studio e di assemblaggio. Inizialmente pensato su più volumi, il frutto di tale lavoro si è concluso con questo libro, a causa della morte, a cinquantanove anni, di David Graeber, cui il volume è dedicato.
Non c’è solo l’opera di esaustiva ricognizione delle fonti, a fare di quest’opera uno strumento imprescindibile. C’è soprattutto una profonda riflessione epistemologica e l’impostazione di una serie di problemi di metodo che chiamano in causa molte discipline, dalla storia alla sociologia, passando per l’antropologia, la filosofia, le scienze politiche e l’economia. Una ricostruzione del passato dell’umanità basata su acquisizioni convalidate dalla comunità scientifica, su fonti consolidate e su ipotesi coraggiose che sfida il comune sentire non solo del lettore ignaro, magari appassionato, ma anche e soprattutto degli addetti ai lavori. Compresi altri autori cimentatisi, in passato o di recente, spesso con notevole successo di pubblico, con tentativi analoghi.
Il libro
Dodici capitoli, densi ma scorrevoli, scandiscono un racconto che spazia dal Paleolitico alle soglie dell’epoca contemporanea, attraverso continenti e oceani, culture e civiltà. Un grande quadro apparentemente complicato da guardare nel suo insieme, ma con una sua coerenza interna che si dipana e si chiarisce mano a mano che ci si immerge nella sua visione.
L’incipit del libro è già tutto un programma:
Gran parte della storia umana è perduta in modo irrimediabile. La nostra specie, l’Homo sapiens, esiste da almeno duecentomila anni, ma perlopiù non abbiamo idea di cosa sia accaduto in questo periodo. (Cap. 1, Addio all’infanzia dell’umanità)
Una professione di umiltà scientifica ma anche il segnale di una precisa scelta metodologica. Che si traduce in un metodo di lavoro puntiglioso. L’esito desiderato voleva essere il più possibile scevro di bias di conferma (seleziono dati e ipotesi che confermano le mie tesi di partenza) e tendente a fare giustizia dei tanti schemi mentali e concettuali applicati spesso inconsapevolmente dalla ricerca, nei vari ambiti delle scienze umane. Per fare un solo esempio, tratto dal primo capitolo, ad un certo punto viene chiamato in causa Jared Diamond, e nello specifico un suo lavoro del 2012, riprendendone un’affermazione alquanto apodittica e dalle connotazioni fataliste: “Le grandi popolazioni non possono insomma funzionare senza leader che stabiliscono, dirigenti che rendono operative e burocrati che amministrano decisioni e leggi”[1]. Il commento dei due autori è:
Conclusione lugubre, non solo per gli anarchici, ma per chiunque si sia mai domandato se possa esserci un’alternativa praticabile allo status quo attuale. Tuttavia la cosa davvero degna di nota è che, nonostante il tono spavaldo, simili affermazioni non si basino, in realtà, su alcun tipo di prova scientifica. (Cap. 1, cit.)
Questo breve passaggio è emblematico del taglio metodologico e stilistico dell’opera e sfida fin da subito chi legge a mettere in discussione nozioni date per scontate e anche la fede in autori ormai di culto, largamente citati e spesso chiamati in causa in discorsi di tipo storico, sociologico, politico, ecc. Emerge anche una delle questioni fondamentali a cui Graeber e Wengrow vorrebbero trovare risposta, partendo dalla constatazione dell’impasse politico, e culturale in cui sembra dibattersi l’umanità in questo scorcio della sua esistenza. Le grandi crisi globali – economico-finanziarie, sociali, ambientali, sanitarie, belliche – denotano un passaggio epocale drammatico. I suoi esiti sono tutt’altro che prevedibili, ma molti indizi inducono esperti di varia estrazione al pessimismo. Specie in considerazione degli elementi di novità, rispetto ad altre epoche: non siamo mai stati così tanti, sul pianeta, né ne abbiamo mai condizionato le dinamiche fisiche, climatiche e biologiche su scala tanto grande. Come ci siamo cacciati in questo guaio? Questa è una delle domande di partenza. Da cui gli autori fanno discendere un ulteriore quesito sul problema della diseguaglianza: come mai soffriamo di questa spaccatura sociale così evidente? Quando è iniziata? Che strumenti abbiamo per comprenderne cause e natura?
Il primo problema che emerge è se porre questo quesito al passato dell’umanità sia corretto e soprattutto fecondo. È vero che la storia è sempre in qualche modo storia del presente. Non nel senso deteriore del “presentismo” (accusa a volte pretestuosa, va detto), ossia la tendenza ad applicare al passato in modo anacronistico categorie, acquisizioni, cornici concettuali del nostro oggi (in Sardegna succede fin troppo spesso). E nemmeno nel senso in cui Fernand Braudel affermava che il presente, dopo tutto, è fatto per più di metà di passato[2]. Piuttosto invece nel senso che le domande che facciamo alla storia dipendono molto dalla nostra attualità. Lo rileva per esempio Alessandro Barbero nel suo lavoro sulle invasioni germaniche alla fine dell’evo antico[3], ma è un fattore che emerge sempre, negli studi storici (in senso lato). Tutto sta a non farsene condizionare fino a stravolgere il poco che del passato riusciamo a strappare all’oblio.
Il confronto con testi e fonti di svariate epoche e un ragionamento senza pregiudizi sulla questione hanno portato i due autori a scartare ben presto questa impostazione. Hanno compreso che il concetto stesso di diseguaglianza, la sua natura e il suo sviluppo storico sono molto più complicati da ricostruire di quanto diamo per scontato e possono portarci fuori strada. Così come lo stesso discorso sulla diseguaglianza, sviluppatosi nel corso degli ultimi due secoli in Europa. Discorso dunque relativamente recente, in cui viene dato comunemente per scontato che le sue stesse radici affondino saldamente nella tradizione culturale europea, cosa tutta da verificare.
Metterne in dubbio i fondamenti e la fecondità teorica del quesito circa la natura e la genesi delle diseguaglianze odierne conduce anche a ragionare sulla democrazia, il suo contenuto concettuale e ideale, i suoi sviluppi storici concreti.
Questa serie di dubbi e di interrogativi porta inevitabilmente a relativizzare la presunta universalità dello sguardo europeo. In questo, il lavoro di Graeber e Wengrow mostra consonanze notevoli con l’ambito degli studi postcoloniali e soprattutto con gli studi decoloniali, di matrice latino-americana. Riportare al centro della scena il “pensiero indigeno” sull’Europa, a partire dalle testimonianze più precoci e anche più sottovalutate, non solo comporta un necessario spostamento dello sguardo, ma completa il quadro e restituisce profondità e senso a processi intellettuali e politici altrimenti monchi. È lo stesso obiettivo degli studi decoloniali: provincializzare l’Europa, reinserirla dentro una dialettica più realistica e più rispondente agli sviluppi storici reali.
Più che intestardirsi su formule in fondo sterili, i due autori decidono di interrogare le fonti e gli studi archeologici, antropologici e storici su come le comunità umane si siano organizzate socialmente e politicamente nelle varie epoche e a varia latitudine, onde trarne qualche insegnamento utile. Inevitabile, a questo scopo, problematizzare sia la pretesa superiorità intellettiva e dunque civile europea, sia la pretesa linearità dei processi storici.
La stessa distinzione tra preistoria e storia, come se le vicende umane avessero acquisito una diversa “qualità” dalla cesura costituita dall’avvento della scrittura, sarebbe da rivalutare con attenzione. A cominciare dalla domanda su cosa sia la scrittura, appunto. Così come le troppo schematiche partizioni cronologiche tra le epoche, allineate ordinatamente lungo i secoli: la (presunta) rivoluzione agricola, la nascita delle città, la scrittura, il sorgere delle istituzioni politiche, la formazione e l’affermazione degli stati, l’economia capitalista, il nostro tempo. È una sequenza lineare data per scontata. Anzi, inevitabile. Assunzione di indole politica, come è facile constatare, ma che presiede, più o meno esplicitamente, alla maggior parte delle ricostruzioni storiche, condiziona gli studi antropologici e sociali ed egemonizza gli studi economici. Trascurando invece altre chiavi interpretative, e prima di tutto una considerazione meno sclerotica e banalmente utilitaristica dei processi politici, culturali e sociali del passato, anche lontano. Lo schematismo ideologico dominante trascura elementi essenziali della vita umana: il gioco, lo scambio rituale, la condivisione spontanea e fine a se stessa, il gusto per la scoperta. E questo nonostante viviamo noi stessi in un mondo in cui il gioco, i riti, il desiderio di conoscere altri luoghi e altre culture sono elementi essenziali anche di quella stessa sfera economica/consumistica che si vorrebbe ormai definita, chiarita e assunta come normativa, non suscettibile di indagine e verifica.
Applicazioni locali
I punti nodali affrontati nel lavoro di Graeber e Wengrow possono essere fecondi anche nella riflessione sulla ricerca e lo studio in Sardegna, nei diversi ambiti delle scienze umane, così come si sono svolti fino ad oggi. In una prospettiva di decolonizzazione epistemologica e più in generale culturale, ci troviamo di fronte a una nuova e ben fornita cassetta degli attrezzi, che sarebbe un peccato lasciare inutilizzata.
In Sardegna, forse più che altrove, abbiamo un bisogno stringente di una rilettura più onesta, meno pigra e meno pavida del nostro passato. Gli spunti offerti da quest’opera possono aiutarci a ragionare diversamente sul poco o tanto che ne sappiamo. Pensiamo, per fare un esempio, a quanta fatica costi ancora oggi affrontare in modo convincente il passaggio dal Neolitico alle Età dei metalli, nell’isola. Pensiamo a quanto poco siano produttivi concetti basati su cornici interpretative date per scontate come la “colonizzazione fenicia” o la “dominazione fenicio-punica” e altre di questo tenore. O l’idea consolidata che ogni innovazione e ogni forma di integrazione materiale e culturale evidenziatasi sull’isola tra XI e VI secolo sia debitrice di un apporto esterno, subìto passivamente dalle popolazioni sarde dell’epoca. Come se esse, affacciandosi sulla soglia di quella che viene comunemente chiamata storia, non possedessero alcuna risorsa propria e dovessero affidarsi alla tutela di comunità umane più evolute e più mature. È una cornice interpretativa spesso implicita, ma largamente presente, anche a dispetto delle risultanze della ricerca. La stessa scansione della lunga storia sarda secondo le varie – a volte presunte – dominazioni straniere, ancora così di moda, è la spia di una pigrizia e di una mancanza di fantasia e di coraggio che non depongono a favore delle nostre discipline storiche e antropologiche.
Uno degli insegnamenti dell’opera di Graeber e Wengrow è la necessità di un approccio rispettoso verso i nostri antenati. Non in termini reverenziali o mitologici, quanto in ragione di un riconoscimento della comune appartenenza alla medesima specie umana. Le generazioni che ci hanno preceduto non avevano niente di diverso da noi, se non il contesto in cui vivevano, la dotazione di conoscenze pragmatiche e teoriche di cui disponevano, le loro condizioni di vita. Pur essendo venuti dopo, noi non siamo superiori, più intelligenti, forse nemmeno più “civili” di quanto fossero le persone umane di due secoli o di due millenni fa, e nemmeno di quelle di cinque o dieci millenni fa. La scoperta che comunità umane che noi consideriamo, con supponenza, “primitive” o “arretrate” abbiano invece sviluppato modelli di produzione, convivenza, relazione complessi e articolati, a volte su larga scala, dovrebbe spingerci a rivedere i nostri superficiali giudizi su molte fasi del nostro passato. L’idea che prima della nostra epoca le comunità umane agissero senza alcuna auto-coscienza, senza la consapevolezza delle proprie scelte collettive, è un’idea presuntuosa e al contempo del tutto infondata. Eppure è così che consideriamo le generazioni del passato. In Sardegna in particolare. Avviluppati nella nostra mitologia tossica fatta di costanti storiche fittizie e di comodi stereotipi, rinunciamo a guardare indietro le vicende di chi ci ha preceduto con il rispetto e la prudenza che pure siamo pronti a pretendere per noi stessi.
Conclusioni
Rivitalizzare gli studi storici e le scienze umane in Sardegna è una necessità evidente. Filosofia de Logu è nata per cercare di rispondere a questa necessità. Affrancarci dalle forme di subalternità più evidenti e da un certo provincialismo è doveroso. Liberarci di zavorre fin troppo pesanti, come – non suoni sacrilego – l’eredità della Scuola antropologica di Cagliari e altri agglomerati metodologici e concettuali obsoleti, ormai improduttivi, non può essere più rimandato. Non per negare la rilevanza degli studi del passato o obliterarne del tutto le acquisizioni (laddove ce ne siano state), ma per affrancarcene con consapevolezza, in un’ottica di apertura, di aggiornamento e di rilancio. In Sardegna perdiamo fin troppo tempo in diatribe sterili, che sottraggono energie e attenzione allo studio e alla ricerca. Una tra tutte, la contesa tra cultori di fantasiose ricostruzioni storiche e l’archeologia e la storiografia istituzionali. Ma pensiamo anche alla disastrosa condizione del dibattito sulla questione linguistica. Dovremmo estraniarci da questi e da altri circoli viziosi e improduttivi e proporre letture al contempo più rigorose e più intelligenti della nostra parabola umana. Fino a dotarci di uno sguardo diverso, più ricco e profondo, più onesto, sul nostro stesso presente.
Anche questo è un lascito del libro di Graeber e Wengrow. Con attitudine gramsciana, i due studiosi non solo non negano ma rivendicano la connessione tra la ricerca, lo studio, l’arricchimento teorico e l’azione politica. Per David Graeber, com’è noto, questo connubio era una ragione di vita, tenacemente perseguita fino all’ultimo. A noi serve come richiamo a non dimenticare mai che lo studio, l’arricchimento culturale, la diffusione della conoscenza sono anche – e per certi versi soprattutto – azioni politiche.
Note:
[1] Pag. 21; citazione tratta da J. Diamond, Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, Torino, Einaudi, 2014 (ed. or. 2012).
[2] F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Torino, Einaudi, 1982, vol. III, Introduzione.
[3] A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Roma-Bari, Laterza, 2010.
ricercatore indipendente, storico, autore di saggistica e narrativa, divulgatore storico. Ha pubblicato di recente (con illustrazioni di Manuelle Mureddu) Illustres. Vita, morte e miracoli di 40 personalità sarde, 2019 e Malos. Vita, crimini e misfatti di quaranta grandi nemici della Sardegna, 2021.