RUINAS - EREDITÀ URBANE DEL CONTEMPORANEO IN SARDEGNA

di Giulia Agnese Sanna

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“Ma vennero dal mare i forestieri con armi nuove e ci sconfissero e dissero ai nostri antichi: «Qui ci vuole una legge». E fu una legge contro le bardane: la legge del «macello», che era il loro diritto di decima, e anche più: una bardana alla grande. Così, la gente si passò la voce e tutti d’accordo dicevano che, ladri per ladri, il diritto di precedenza l’avevamo noi in casa nostra, tanto più che le cose prima del loro arrivo passavano sì di mano in mano, ma restavano nell’isola, mentre ora prendevano la via del mare. Chi aveva ragione? Avevamo ragione noi. Per questo prendemmo le armi: e tanti e tanti morirono dall’una parte e dall’altra: la fortuna fu però con loro e ci trovammo con la fune al collo, come le bestie domite. Ma non tutti. Molti di noi entrarono nei boschi giurando di prendersi la rivincita.”
Miele Amaro, Salvatore Cambosu

 

Ruìnas è il nome che è stato dato alla prima open call fotografica delle Officine Condivise, nuova associazione di promozione sociale ubicata a Sassari. In sardo però le ruìnas non sono soltanto il nome di un concorso, ma sono le rovine in cui viviamo da anni, segni di colonizzazioni e sfruttamenti della terra, che restano negli occhi di chi nell’isola ancora vive e respira. In una terra messa allo stremo dagli innumerevoli anni di conquiste, schiavitù e repressione sotto ogni possibile aspetto conosciuto, che esso sia linguistico, lavorativo, in termini di qualità di vita o di appropriazione culturale, le rovine diventano atti politici come simboli più ampi dell’immaginario comune. Le rovine su cui sovrastiamo sono ciò che ci resta di una terra colpita da maestrale e onde, critiche silenti di anni di soprusi, di strutture acquistate dagli imprenditori continentali negli anni Settanta come fonti di investimento fino a toccare le strutture ospedaliere abbandonate, simbolo di una sanità allo sfacelo. Dalle piccole imprese fallite, troppo poco in vista per potersi perpetuare nel tempo, ai segni dei soprusi tra foreste e paesaggi nei segni di occupazioni militari in una terra che produce bombe e garantisce terreno di esercitazioni alle armi, in cui schiavitù e vacanze si alternano in un ciclo continuo a discapito di chi ancora respira la stessa aria.

È possibile scindere la fotografia dalla politica? Probabilmente per molte persone l’ausilio della fotografia non ha niente a che fare con la politica, eppure tra le sue inclinazioni figura quello del trasmettere attraverso un’immagine una sensazione, un contesto, uno spazio di libera interpretazione. Per Tano D’Amico, i fotografi sanno che la vera bellezza talvolta può essere critica, e di fatto lo è. La realtà talvolta sembra chiedere al fotografo di essere partecipata, rappresentata e criticata, gli chiede di continuare a cercare e prendere parte, a schierarsi, ad agire. Quasi come se la realtà stessa chiedesse aiuto al fotografo e a chiunque guardi. (1)

Il risultato che ne è emerso dalla mostra “Ruinas – eredità urbane del contemporaneo in Sardegna” si avvicina molto alla visione di Tano D’amico, Guido Guidi, Lisetta Carmi e molti altri. Il focus della chiamata aveva come obiettivo il racconto, attraverso l’ausilio della fotografia, della contemporaneità urbana dell’isola, dalle strutture mai concluse fino a quelle in stato di abbandono. La mostra è stata esposta a Sassari dal 14 al 25 Ottobre e ha racchiuso al suo interno tantissima compartecipazione, con scatti provenienti da più parti dell’isola. In una terra in cui ancora si vivono quotidianamente i segni delle invasioni e delle violenze come parte integrante della propria cultura e della propria visione collettiva degli spazi, le opere esposte alla mostra hanno portato con sé un nuovo sguardo dell’isola, quello raccontato dai sardi sugli spazi del loro territorio. 

L’alternarsi delle foto tra giochi di luce e oscurità, bianco e nero, colori tenui e forti contrasti ha permesso alla varietà delle opere esposte di far emergere una vasta gamma di condizioni, da nord a sud. Nelle foto non comparivano infatti solo strutture abbandonate ma anche parti integranti della natura in cui molti degli spazi giacciono ancora. La sensazione è simile a quando uno si reca a Gairo per la prima volta e non riesce a concepire come un intero paese diroccato riesca ancora a ergersi in piedi, sopraffatto dalla natura che si riprende il suo spazio, tra rocce e alberi. Il vedere così tanti differenti sguardi con un’unica posizione comune, quale il tema dell’abbandono in Sardegna, contiene al suo interno innumerevoli riflessioni. 

 

Tra i soggetti più rappresentati figura certamente l’ex Base Militare USAF, posta a 1300 metri d’altezza sul Monte Limbara, nella provincia di Tempio. In funzione dal 1966 e tra i principali centri di controllo delle comunicazioni radio nel Mediterraneo, fu abbandonata in definitiva ai primi degli anni Novanta. La struttura è abbandonata e lasciata a sé stessa da anni, sebbene di recente sia stata data in consegna al Comando Reparto Sperimentale Tiro Aereo di Decimomannu. Al suo interno erano presenti numerose scorie e rifiuti ambientali, ripulite e raccolte grazie ad un’iniziativa del collettivo Sardinnia Aresti lo scorso settembre. Le foto esponevano anche numerose strutture minerarie della Sardegna, fonte di guadagno per l’isola e motivo di sfruttamento tra il X e l’VIII secolo a.C., che nella nostra storia di sangue e conquiste hanno sempre giocato un ruolo chiave durante le invasioni fenicia, cartaginese e romana. Tra gli scatti esposti alla mostra presenti anche le miniere di Nebida, Iglesias, Montevecchio e Argentiera. In particolare, l’Ex Miniera Argentiera è stata fonte di ispirazione per molti dei partecipanti, essendo un piccolo paese sul mare abitato prevalentemente dai lavoratori della miniera, stabilitisi lì tra polveri e rocce. L’Ex Miniera è stata particolarmente attiva dall’Ottocento fino alla fine degli anni Ottanta/Novanta per l’estrazione di piombo e zinco argentifero. Un destino simile a quello di Rosas, Nebida e Carbonia, di cui alcune figuravano come parte degli accordi di Vittorio Emanuele II sulle attività estrattive provenienti dalla Sardegna.

 

“Suo padre, minatore a Rosas, si ammala di ulcera: «A quei tempi l’ulcera era una malattia grave, non c’erano le cure di oggi e nei casi gravi diventava invalidante. In più, in caso di malattia non esisteva ancora la cassa mutua e la società mineraria non ti pagava lo stipendio se eri costretto a rimanere a casa. Erano anni difficili, così che mio padre chiese alla Direzione se mi assumevano al posto suo. Dissero di sì. (…) Un lavoro non solo duro: perché i sorveglianti trovavano ogni scusa per maltrattarti e ogni pretesto per toglierti ore dalla busta-paga, per far risparmiare la società. A quel tempo, per i lavoratori della miniera non c’erano diritti, solo sfruttamento.»
I minatori raccontano, storie di vita e di fatica, EcoMuseo Miniere Rosas

E ancora tra i boschi di Santu Lussurgiu, vittima di inarrestabili fiamme nelle ultime estati, fino alle dighe dismesse e alle strutture balneari abbandonate dai primi del Duemila, si ha la sensazione che in alcuni scatti il focus non sia più la struttura in sè ma ciò che ne resta alle sue spalle, di un terreno usufruito e abbandonato. Simile al tema in cui ci troviamo a dibattere in Sardegna negli ultimi mesi, mentre camminiamo tra cieli metallici di pale eoliche e pannelli fotovoltaici in un’isola ammaestrata, con contratti di permanenza per i prossimi dieci anni e smaltimento a carico del sardo.

Se è vero che lo spazio viene spesso concettualmente inteso come percezione attiva, a detta di Graham intendendo lo spazio come paesaggio e architettura come connotazione politica di spazio concertato in cui il luogo dell’abitare non sia soltanto un vuoto da riempire ma un organismo pulsante, osmotico e modificabile vivendoci (4), la mostra non diviene più un insieme di visioni ma una domanda da proiettare oltre: che cosa ne resta dell’isola? Quale cambiamento ognuno di noi può attuare per smettere di vivere tra macerie e culture altrui?

“Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.”
Passavamo sulla terra leggeri, Sergio Atzeni

Bibliografia

Miele Amaro, Salvatore Cambosu, Vallecchi Editore,1989

Misericordia e Tradimento, Tano D’Amico, Mimesis/Sguardi e Visioni Edizioni

Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione, l’arte contemporanea e il paesaggio metropolitano, Viviana Gravano, Mimesis/Kosmos Edizioni, 2012

Storia della Sardegna, Francesco Floris, Newton Compton Edizioni

Passavamo sulla terra leggeri, Sergio Atzeni, Ilisso Editore, 2000



Giulia Agnese Sanna

Giulia Agnese Sanna

Giulia A. Sanna (Sassari, Inverno 1994) è laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche dei Processi Cognitivi e attualmente iscritta presso l’Università degli Studi di Firenze in Psicologia Clinica e della Salute. Lotta nel suo rapporto tra la propria terra e il tramandare un’isola a tratti destinata a scomparire. Appassionata di fotografia, mare, letteratura, punk hc e hip hop.