SULLA COLONIZZAZIONE INTERPLANETARIA. ANTICHI ASTRONAUTI E RAZZISMO

di Cristian Perra

Tempo di lettura

14 Minuti

Group-73.png

Questo articolo comincia con un aneddoto personale: era il 2010 e da giovane liceale e con la mia classe partecipavo alla manifestazione “Monumenti Aperti”, esattamente al museo archeologico di Cagliari. Nello specifico ero l’addetto alla spiegazione dei reperti provenienti da Su Nuraxi di Barumini e all’agiografia di Giovanni Lilliu, suo scopritore.

Mentre un cospicuo gruppo di visitatrici e visitatori ascoltava le mie parole, riguardanti le modalità costruttive dei nuraghi vengo interrotto. Si trattava di un operatore della sovrintendenza ai beni archeologici, un lavoratore del museo, il quale sosteneva che ciò che dicevo non era corretto. Le architetture preistoriche sarde non erano state costruite attraverso le modalità che descrivevo, né tantomeno dalle popolazioni nuragiche, le quali «non avrebbero mai potuto sagomare i materiali costruttivi con una tale precisione e facilità». La risposta era che – come sempre – la “Sardegna non poteva farcela da sola”, e che soprattutto questa volta, il colonizzatore sarebbe interplanetario.   

A prescindere dal divertente aneddoto e dalle svariate narrazioni pseudostoriche che possiamo ricondurre alla teoria degli antichi astronauti quello che ci interessa è notare il portato simbolico di teorie come queste e come queste nascondano dietro di loro la narrazione coloniale.

Ma andiamo con ordine.

La paleoastronautica, come scrive l’ebraista Giuseppe Cùscito

è un’ipotesi pseudoscientifica e pseudostorica secondo cui il pianeta Terra sarebbe stato visitato in passato da civiltà extraterrestri. Secondo questa ipotesi, tracce di tale visita sarebbero rappresentate dai monumenti del passato, giudicati arbitrariamente come “impossibili”, e inoltre i testi sacri e i miti di “tutte” le culture conserverebbero memorie, seppur distorte, di tali presunti incontri.[1]

Essenzialmente si tratta di una ipotesi pseudostorica e pseudoscientifica la quale sostiene che lo sviluppo dell’essere umano sarebbe stato causato da un incontro ravvicinato tra le popolazioni antiche e dei colonizzatori ancestrali ed esterni, provenienti dallo spazio.

Di solito i sostenitori di questa teoria ritengono anche che questi presunti antichi astronauti siano stati scambiati per divinità dalle antiche popolazioni con cui vennero in contatto, le quali conservarono un ricordo di tale incontro nei loro testi, che furono poi considerati sacri o in evidenze archeologiche.

L’ispirazione per queste teorie viene direttamente dalla lettura da parte dei primissimi autori di questo filone delle opere di fiction di Howard Philip Lovecraft.

 

Lovecraft, agli inizi del ‘900, creò un nuovo sottogenere di horror[1], in cui raccontava di una serie di esseri cosmici come il celeberrimo Chtulu, o la divinità esterna Azatoth provenienti dallo spazio, i Grandi Antichi (The Great Old Ones) che, una volta giunti sulla Terra in illo tempore, divennero oggetto di culto da parte dei terrestri primitivi.

In questa sede non ci interessa particolarmente discutere la veridicità o falsità – quest’ultima pressoché evidente – di tali teorie, lasciando lo spazio al lavoro delle decine di Debunkers che si occupano di destrutturarle alla radice.[2]

Quello che ci interessa in questa sede è mostrare come l’immaginario che sta dietro queste teorie sia profondamente eurocentrico e coloniale, il che comporta il rivolgersi al cielo per superare le fallacie logiche proprie di una soggettività forclusa.

Ricostruire brevemente la storia della paleoastronautica ci permetterà di mostrare come la teoria del paleocontatto abbia dentro di sé tendenze che non possono essere spiegate se non attraverso il colonialismo e il razzismo.

Uno dei principali testi responsabili della diffusione della paleoastronautica in Europa è Il mattino dei maghi (Le matin des magiciens), apparso nel 1960 in Francia ad opera di Louis Pauwels e Jacques Bergier.

 

L’opera si divide in tre parti: la prima dedicata alle civiltà scomparse e alla possibilità che siano state visitate, se non proprio influenzate o addirittura create, da esseri provenienti da altri pianeti.

La seconda è dedicata ai presunti legami fra il nazismo e l’occultismo, legami la cui esistenza storica, peraltro, non è documentata, essendo una “tradizione inventata” sorta solo nel dopoguerra.

Nella terza parte, invece gli autori speculano su presunte potenzialità nascoste dell’essere umano, sulla definizione di stato di veglia e di stati di coscienza superiori, nonché sull’eventualità di mutazioni genetiche pilotate ai fini del potenziamento dell’intelligenza della specie umana.

Gli antichi astronauti, la cui esistenza viene prima ipotizzata come mero esercizio di apertura mentale poi improvvisamente data praticamente per certa, avrebbero fornito alle antiche civiltà delle tecnologie in campo prima di tutto paranormali, oltre che tecnologiche, come dimostrerebbero alcuni passi della Bibbia e altri testi indù, quali il Ramayana e il Mahabarata.

 

L’immagine di questi presunti esseri extraterrestri scambiati per divinità dai popoli del passato è stata resa più efficace, grazie alla sua diffusione, dovuta all’attiva divulgazione promossa dai due autori, dell’opera di Lovecraft, che essi ritengono oltre che padre della fantascienza, un novello Omero.

Già in Il mattino dei maghi troviamo gli stessi casi studio che renderanno famose le teorie degli antichi astronauti: la costruzione delle piramidi egizie, i moai dell’isola di Pasqua, le linee nazca in Perù o le piramidi inca.

Certamente per questi scrittori, si tratta – seguendo ancora l’esempio lovecraftiano – di pura fiction, ma dopo Il mattino dei maghi la paleoastronautica passerà da un piano esclusivamente narrativo alla formazione di una teoria pseudostorica.

Il loro realismo fantastico è considerato più un’arte che una scienza ed è aperto all’idea che l’essere umano possegga facoltà inesplorate quali poteri extrasensoriali, levitazione, ecc., anche se non vi sarebbe nulla di magico o di mistico in ciò.

Si tratta solo di conoscenze di tipo tecnico, che sarebbero state mistificate nel corso della storia. Quest’ultima procede peraltro con un andamento a spirale, volendo significare che a ogni ritorno corrisponde un ritrovarsi in un punto vicino a quello precedente, ma a un livello superiore.

L’approccio del realismo fantastico è direttamente ispirato all’opera di Charles Fort, anch’egli fortemente scettico verso il pensiero magico–esoterico, così come lo era verso la scienza.

Quindi, se Fort non escludeva, a livello puramente ipotetico, che il nostro pianeta fosse stato visitato in passato, perché dovremmo escluderlo noi? Questo è, infatti, tutto quello che hanno da dire gli autori in merito a ciò che ci autorizza a parlare di un presunto paleocontatto: semplicemente accogliere un’ipotesi formulata così pour parler, prendendola in considerazione senza nessun’altra motivazione se non «nessuna immagine è troppo forte e nessuna ipotesi è troppo aperta».[1]

Il prossimo autore di cui ci occuperemo brevemente è Robert Charroux, il quale aggiungerà alla teoria alcune delle determinazioni razziste che ci interessa mettere in luce.

Come nota Stefano Bigliardi

Charroux advances a whole range of narratives and theories, not always perfectly dovetailing with each other, about human races. In Histoire inconnue des hommes depuis cent mille ans, he suggests that contemporary humanity is recovering from past destruction, or degeneration following extreme technological advancement. He adds that the “intellectual superiority of the white race” (that he seemingly takes for granted), can be explained in two ways. Its representatives either descended83 from extraterrestrials, or, directly, that is, without “any remarkable mutation,” from the “superior ancestors” of primhistory. In this latter case, he explains, also the “black,” “yellow,” and “red” humans (of today) descend from those very ancestors but, in the event of the aforementioned catastrophes, they were more exposed to radiation.[2]

Il rapporto con gli antichi alieni, i quali avrebbero creato l’umanità secondo un principio di ingegneria genetica, quindi secondo Charroux sarebbe ripartito nel globo in maniera diseguale. Alcune razze sarebbero direttamente provenienti dagli alieni (ovviamente quella bianca), mentre le altre sarebbero forme degradate e impuredi questa.

Scrive ancora Bigliardi

Le livre des maîtres du monde contains an articulate account of the existence of what Charroux perceives as present–day races, in the framework of a discussion of primhistory. It is offered along a detailed illustration. Humanity originated with the coming of extraterrestrials, later conceptualized as “angels.” It was first divided into two main, and opposed, civilizations, which descended from such angels: Atlantis (in the Atlantic Ocean), and Mu (or Lemuria, in the Indian Ocean). There also were autochthonous humans, located in Africa, and a colony of extraterrestrials, or Hyperboreans, probably located in Greenland. Such civilizations and peoples were destroyed by cataclysms and/or nuclear wars around 10,000 BCE.[3]

In Le Livre des mondes oubliés Charroux respinge la teoria dell’evoluzionistica, e sostiene invece una sorta di devoluzionismo per cui la maggioranza degli umani sarebbero di origine aliena, superiore agli ominidi, ma regrediti.

Charroux sosteneva, come Esiodo o esoteristi quali Julius Evola, che l’essere umano è in un costante processo di decadenza e regressione ormai da millenni attraverso gli incroci tra l’una e l’altra “razza”.

Questi incroci avvenivano mentre la razza umana era superiore nel passato in termini di evoluzione fisica e mentale.

Ha inoltre affermato che gli atlantidei e gli iperborei – che sarebbero anche gli abitanti della Terra cava, di Agarthi e Shamballa – erano gli antenati degli esseri umani moderni, e che i primi umani intelligenti sulla Terra erano originariamente extraterrestri o loro figli.

Gli europoidi (“bianchi”, in cui include ariani, indoarii, ebrei, slavi ma anche i giapponesi) sarebbero puri alieni o da loro derivati attraverso incroci con uomini autoctoni, gli asiatici (da lui chiamati “rossi” e “gialli”), comprendenti anche i nativi americani, sarebbero derivati da europei sottoposti alle radiazioni ionizzanti di una guerra nucleare tra fazioni extraterrestri, più incroci tra alieni con uomini e alcuni animali compatibili, mentre i neri sarebbero derivati dagli autentici umani autoctoni, quindi dagli ominidi africani come l’Homo erectus, senza l’apporto di DNA extraterrestre o mutazioni indotte ammettendo in questo una qualche forma di evoluzione naturale.

È tuttavia con Erich von Däniken che la Paleoastronautica avrà il successo internazionale che ancora riscuote.

 

Nel suo primo libro, Chariots of the God, von Däniken sostiene la presenza degli alieni sulla Terra nella remota antichità. L’autore svizzero tratta in particolare della plausibilità della loro esistenza e del viaggio interplanetario che avrebbero intrapreso. Ma soltanto dopo due o tre pagine comincia a speculare su un tema che gradualmente assume maggiore rilievo, tanto per lui quanto per altri autori simili.

Gli esseri umani sarebbero stati generati, nella loro forma presente, proprio da quegli dèi che avrebbero anticamente visitato la Terra.

Questo spiegherebbe il riferimento, nelle sacre scritture e negli antichi miti, all’accoppiamento di giganti e figli del cielo con donne, ma anche il racconto del diluvio universale, che sarebbe stato un atto di sterminio selettivo da parte degli dèi; e, soprattutto, in tal modo, si spiegherebbe, secondo von Däniken, il riferimento biblico agli umani creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

Ora aggiunge che il racconto della Genesi riguardante la creazione di Eva dalla costola di Adamo echeggerebbe il fatto, ovviamente noto a intelligenze superiori, che il midollo osseo possa essere usato come coltura. L’importanza di Eva spiegherebbe così le frequenti rappresentazioni di figure femminili dell’Età della Pietra. La caduta di Adamo potrebbe essere interpretata come il suo accoppiamento con gli ominidi del vecchio tipo. A quel punto gli dèi sarebbero intervenuti geneticamente una seconda volta, tra il 7000 e il 3500 a.C., per migliorare la loro creazione.

Von Däniken ipotizza anche che gli dèi abbiano programmato, a livello genetico, lo sviluppo mentale e intellettuale dell’umanità.

Per quanto le sue opere siano per lo più frutto di plagio di Charroux e Kolosimo[1], von Däniken contribuì fortemente a diffondere l’idea per cui dei presunti alieni avrebbero non solo visitato il nostro pianeta in passato, ma avrebbero anche creato la nostra specie.

Inoltre, se anche vi furono dei precedenti, contribuì a divulgare l’idea secondo cui le visioni straordinarie all’interno del testo biblico – ad esempio quello di Ezechiele – non si riferissero ad altro che a un disco volante. Questo diventerà un classico della paleoastronautica, che resite fino ai giorni nostri, per quanto gli stessi Pauwels e Bergier interpretino questo episodio in chiave puramente simbolica.

Citiamo ancora Zecharia Sitchin, il quale è forse il maggior esponente della teoria che sostiene che le divinità sumere, gli Anunnaki, sarebbero esseri provenienti da un pianeta, Nibiru, che è sconosciuto alla scienza moderna ma non a quella sumero–babilonese.

Questi Anunnaki avrebbero creato la razza umana come manovalanza per estrarre l’oro dalle miniere.

E infine Mauro Biglino, il quale vedrebbe le tracce del passaggio degli antichi astronauti nel testo biblico[2] da parte della razza aliena degli elhoim, che si sarebbe trasformata nel Dio ebraico.

Nel 2010, infatti, Biglino pubblicò il suo primo libro a tema paleoastronautico[3], in cui presenta la propria versione dell’ipotesi, sostenendo che il testo ebraico della Bibbia non parlerebbe di divinità ma di una pluralità di individui in carne e ossa. Nella Bibbia non si parla di alieni: ci sono, a suo dire, dei veicoli volanti ma che siano alieni lo deduce dai testi di altri popoli vissuti anticamente che parlavano di esseri che arrivavano dalle stelle, come per esempio nei libri di Sitchin.

Queste teorie, sebbene partano da premesse, metodologie e risultati diversi si rifanno tutte allo stesso nucleo argomentativo[4].

I popoli del passato – che ancora non avevano incontrato l’uomo bianco europeo – non potevano avere le conoscenze, la tecnologia o le capacità di produrre quello che hanno prodotto, quindi necessariamente, in mancanza dell’intervento modernizzatore europeo, qualcun altro o qualcos’altro deve necessariamente essere intervenuto.

I teorici degli antichi astronauti diranno che le grandi piramidi egiziane o le linee nazca in Perù saranno state opere dell’intervento extraterrestre o di civiltà avanzate proto–europee come quelle atlantidee.

Il bias cognitivo più importante usato dai sostenitori di queste teorie è di riconoscere – senza alcuna evidenza archeologica – come le antiche popolazioni non potessero avere le capacità ingegneristiche tali da poter costruire opere architettoniche così imponenti.

Gli archeologi e gli antropologi – che da sempre provano invano a contestare queste teorie – verranno così accusati di voler nascondere la verità.

Ci si trova davanti a una fallacia logica che fa sì che le popolazioni nere, quelle mesoamericane, o comunque popolazioni non–bianche, non siano responsabili della propria storia. I siti archeologici in Africa, Asia, nelle Americhe o in Sardegna, sarebbero la prova del contatto extraterrestre, mentre le civiltà europee si sarebbero sviluppate di loro sponte.

Questa considerazione non è frutto solo della tendenza eurocentrica di considerare l’Europa come unico mondo possibile, ma vi è una vera e propria costruzione di senso per rispondere al bisogno di totalità di una soggettività forclusa che non riesce a non pensarsi come tale.

Il ricorso al simbolico per compensare la propria non–unicità è alla base della creazione di un orizzonte mitico che riesca allo stesso tempo a fornire sia la legittimazione alla propria identità e alla propria volontà di potenza, e allo stesso tempo di distinguere radicalmente l’identità occidentale dalle altre, ritenute inferiori, non in grado di svilupparsi in alcun modo che non sia l’assimilazione da parte europea.

Le soggettività non–europee devono essere talmente tanto senza storia da dover ricorrere all’intervento interplanetario.

Per elevare l’unicità dell’esperienza occidentale attraverso una narrazione razzista, il colonialismo occidentale ha intenzionalmente ignorato ed eliminato ogni evidenza dell’esistenza di autonomia tra le popolazioni non–europee, in particolare quelle nere.

Se andiamo a leggere l’opera di Von Däniken, in particolare il già citato Chariots of the gods ci troviamo di fronte a vere proprie frasi suprematiste bianche e razziste.

Scrive Von Däniken:

The evolutionists say that man descends from monkeys. Yet who has ever seen a white monkey? Or a dark ape with curly hair such as the black race has?[5]

Ancora dalla stessa pagina:

[…]I am not concerned with comparisons within the major races, but only with solving the problem of how the first major races originated.[6]

E ancora:

Was the black race a failure and did the extraterrestrials change the genetic code by gene surgery and then programme a white or a yellow race?[7]

Per concludere:

I quite understand that I am playing with dynamite if I ask whether the extraterrestrials ‘allotted’ specific tasks to the basic races from the very beginning, i.e. programmed them with special abilities.[8]

Si tratta di un pregiudizio che si può esemplificare nelle parole dell’archeologo inglese James Theodor Bent, il quale nella terza edizione del suo libro The Ruined Cities of Mashonaland (1893) dichiara:

It [i.e. the architectural sophistication of the city] is, however, very valuable confirmatory evidence, when taken with the other points, that the builders were of the Semitic race and of Arabian origin, and quite excludes the possibility of any Negroid race have had more to do with their construction than as slaves of a race of higher cultivation; for it is a well accepted fact that the Negroid brain never could be capable of taking the initiative in work of such intricate nature.[9]

Di fatto, ci troviamo di fronte a un orizzonte mitologico atto a rendere subalterne sul piano simbolico tutte le soggettività non europee. Ma cosa comporta il passaggio al simbolico nella narrazione mitologica?

Per una analisi di questo tipo sui materiali mitologici, bisogna innanzitutto riconoscere come la scienza del mito sia stata dominata storicamente da una impostazione mistico–esoterica o da una archetipica che non ha mai contemplato il tipo di analisi critica della società a partire dal discorso mitologico che vorremmo proporre.

Effettivamente, però, è esistito un unicum che è riuscito ad operare una critica immanente del mito, mostrando la compromissione di questo con il discorso del potere: si tratta dell’esperienza teorica di Furio Jesi.

In particolare, facciamo riferimento all’individuazione di una struttura che soggiace alla rielaborazione dei vari mitologemi (che da ora e in poi chiameremo materiali mitologici).

Si tratta del funzionamento di una macchina mitologica.

Tuttavia, il mito può essere paragonato ad una “macchina” in quanto si ritiene che ciò che ne determina il senso e, quindi, la riconoscibilità non sia il contenuto, bensì la forma e soprattutto la funzione. A loro volta, le idee di macchina e di funzione veicolano intorno al mito una terza nozione, ovvero quella di costrizione, che minaccia l’autonomia di colui che ne è sottoposto. Se il mito è oggettivante, esso anche oggettifica, cioè imprigiona il suo pubblico nelle categorie oggettive, anzi, dal punto di vista critico, nell’illusione di oggettività di cui si fa portatore.

Il grande tentativo moderno, condotto delle scienze umane, di imbrigliare il mito in una funzione, in una “macchina mitologica” che, tra l’altro, avrebbe la conseguenza operativa di produrre un’illusione di oggettività di contro all’oggettività effettiva della realtà descritta dalla scienza, ci appare ora nella sua corretta prospettiva di rimozione ideologica di un contenuto mitico che consiste nella metamorfosi, ossia nella capacità di immedesimazione e di trasformazione che innerva la conversazione sociale delle culture e dà vita al regime del senso per cui fatti e accadimenti diventano esperienze e, nel narrare delle storie, possono essere indefinitamente condivisi, generando le comunità del racconto. La mitologia è l’insieme aperto delle narrazioni che la conversazione sociale delle culture accumula e intreccia, senza esclusioni, né riserve, e che cresce ospitale, sperimentando nelle sue personificazioni e nelle sue trame, i giochi della possibilità che il principio di trasformazione prevede.

La macchina mitologica, scrive Jesi,

pone nelle nostre mani, nello stesso tempo, un modello gnoseologico e uno specchio del nostro inganno.[10]

Per Jesi, infatti, la mitologia è «sempre la mitologia di un potere»[11], è un dispositivo che si costituisce in base ai rapporti di potere vigenti, con l’obiettivo di costruire – oltre che una narrazione – un vero e paradigma epistemologico, potremmo dire un regime di verità in grado di conferire senso alla realtà.

La figura militante del mitologo ha per Jesi come obiettivo quello di mettere i bastoni tra le ruote della macchina mitologica: demistificare gli aspetti legati al potere sociale mostrandone il carattere di supporto ideologico.

Proprio per questo egli si pone in maniera critica rispetto alla scienza del mito per come sempre è stata studiata – a partire dall’esperienza del suo stesso maestro, Károly Kerényi – ad una scienza archetipica che si è costruita sulla volontà di trovare una dimensione mistica e originaria al discorso mitologico.

Per Jesi, non si tratta di tornare all’arcaico, alla bontà e giustezza misteriosa dell’origine, ma di comprendere i processi scaturiti da essa.

L’analisi sull’origine del mito ci permette, quindi, con e oltre Jesi, di operare una analisi critica del mito a partire dalla fine, dai suoi effetti, dalle sue conseguenze e dai rapporti di potere che lo hanno creato e che ha generato e non ab aeterno, come se fossero una materia di per sé.

Proprio per questo, secondo Jesi, il mitologo non si dovrebbe occupare di studiare il mito in sé – il quale sarebbe a suo dire inconoscibile come sostanza – ma di studiare il funzionamento della macchina mitologica: il suo rielaborare costantemente dei materiali, dei mitologemi che vengono risemantizzati in base ai rapporti di potere vigenti.

Come scrive lo stesso Jesi nel volume sul Mito della Enciclopedia Filosofica ISEDI:

chi crede nell’esistenza del mito come sostanza autonomamente esistente, tende a credersi anche depositario dell’esegesi che, sulla base presunta dell’essenza autonoma del mito, distingue i giusti dagli ingiusti, coloro che devono vivere da coloro che devono morire. Qualsiasi studio del concetto di mito che non voglia confondersi con l’elaborazione dottrinale della mistica del potere, deve quindi affrontare come problema capitale e con la critica più rigorosa l’eventualità della sostanza del mito.[12]

Per Jesi «il mito non ha sostanza al di fuori della mitologia»[13], ed è proprio chi esercita la mito–logia, intesa come elaborazione e sistematizzazione dei materiali mitologici a determinarne l’essenza. Non si tratta tuttavia di un meccanismo esclusivamente lontano da noi a livello temporale. Esso riguarda piuttosto riguarda molto da vicino anche la società nella quale viviamo, il nostro presente e il nostro passato prossimo.

Anche l’industria culturale attinge agli istinti primordiali dell’essere umano, ma più che rispondere a determinate esigenze, essa si occupa di produrne, e pur pretendendo ipocritamente di regolarsi su bisogni concreti e reali, non soltanto finisce per fabbricare tali bisogni, ma produce persino identità e sintonia con chi ne usufruisce, costruendone anche le reazioni.

 

Note:

[1] Giuseppe Cùscito, Paleoastronautica e cospirazionismo nel XXI secolo: un caso italiano, in La Rosa di Paracelso, 1–2020, p. 4.

[2] Si rimanda a H. P. Lovecraft, The Complete Fiction of H.P. Lovecraft, Race Point Publishing, New York, 2014, trad. it. L’opera completa, a cura di Carlo Pagetti, Fanucci Editore, Roma, 2020.

[3] Per il debunking delle teorie degli antichi astronauti si rimanda ai numerosi articoli pubblicati sull’argomento su Query, rivista on–line del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze).

[4] Il mattino dei maghi, cit., p. 207.

[5] Stefano Bigliardi, Ancient Aliens, Modern Fears: Anti–scientific, Anti–evolutionary, Racist and Xenophobic Motifs in Robert Charroux, in Alternative Spirituality and Religion Review, in stampa, p. 12

[6] Ivi, p. 13.

[7] In Chariots of the Gods plagiò pesantemente sia Peter Kolosimo, sia Pauwels e Bergier, accreditando questi ultimi come fonte solo dopo che gli fecero causa.

[8] Biglino riprende quindi le idee di Sitchin, applicandole alla Bibbia ebraica, invece che ai testi sumeri come il suo predecessore, proseguendo quindi il particolare filone della paleoastronautica inaugurato dallo scrittore azero, che consiste nel tradurre molto liberamente i testi antichi, considerati come prove di una presunta origine extraterrestre della specie umana. Le religioni monoteiste sarebbero quindi frutto di una deliberata cospirazione da parte di non meglio precisati teologi che avrebbero nascosto la verità sulle origini dell’essere umano, che sarebbero invece riconducibili, come si è detto, a interventi genetici.

[9] Mauro Biglino, Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia. Gli dei che giunsero dallo spazio? Uno Editori, Torino, 2010.

[10] La paleoastronautica, oltre che annoverare numerosi altri autori che provano ognuno a loro modo a legittimare le proprie teorie e, soprattutto a vendere numerosi libri, è stata inoltre portata al grande pubblico attraverso la serie di documentari Ancient aliens, ispirati da Von Däniken e condotti, per lo più, dal direttore del Ancient Astronaut Research (fondato dallo stesso Von Däniken) Giorgio Tsukalos, diventato, suo malgrado, protagonista dell’internet attraverso un celebre meme.

[11] Erich Von Däniken, Chariots of the gods, Berkeley, New York, 2018, p. 58.

[12] Ibid.

[13] Ibid.

[14] Ibid.

[15] James Theodor Bent, The Ruined Cities of Mashonaland, Longmans Green e Co, Londra, 1893, p. 23.

[16] Furio Jesi, Materiali mitologiciMito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Einaudi, Torino, 1978, p. 18.

[17] Furio Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, D’Anna, Messina – Firenze, 1976, p. 30.

[18] Mito, cit., p. 8

[19] Materiali mitologiciMito e antropologia nella cultura mitteleuropea, cit., p. 107.

Cristian Perra

Cristian Perra

Cristian Perra è ricercatore indipendente. Laureato presso l’Università degli studi di Sassari all’interno del corso di laurea magistrale in Scienze storiche e filosofiche con una tesi dal titolo “Stare sulla linea abissale. Appunti per una critica della ragione coloniale” che discuterà nell’ottobre 2022. È Militante e attivista politico nel campo delle lotte contro l’occupazione militare della Sardegna. I suoi interessi di ricerca vertono sugli studi postcoloniali, sull’opzione decoloniale, sulla Teoria critica della società, in particolare l’esperienza filosofica di Theodor W. Adorno, e sulla storia critica delle idee. È membro del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, incentrato sull’applicazione al contesto sardo delle teorie e delle pratiche decoloniali e responsabile editoriale del sito omonimo.