SULLA LINEA EST-OVEST. INTERVISTA ALLA REDAZIONE DI EST/RANEI

a cura di Cristian Perra

Tempo di lettura

10 Minuti

Group-73.png

L’ambito degli studi postcoloniali si è spesso concentrato sulle differenze tra territori e soggettività lungo l’asse nord-sud lasciando tuttavia scoperte le marginalità sull’asse est-ovest. Raramente, infatti l’esperienza est-europea viene considerata. Pensiamo alle rappresentazioni riguardanti l’est-Europa fornite dai media dopo l’invasione russa dell’Ucraina o a quelle sulle donne dell’est.

Per provare a problematizzare questa mancanza e per osservare ciò che si trova al di là della linea est-ovest abbiamo fatto qualche domanda alla redazione di Est/ranei, progetto divulgativo “dalla parte sbagliata del muro di Berlino”, che si occupa di letterature, cinema e culture centro e est-europee.

Con le loro parole leggiamo che la redazione di Est/ranei si occupa del “racconto delle realtà centro- ed esteuropee con uno sguardo appassionato, informato e al di là della falsa dicotomia tra cultura alta e cultura pop, tra Est e Ovest, tra realtà e accademia”.

E ancora è particolarmente interessante il loro approccio alla divulgazione in questo campo. Scrivono infatti: “Crediamo in una divulgazione orizzontale e attenta alle pieghe del contemporaneo, e vediamo questa nostra radicale estraneità come un residuo irriducibile e ingovernabile in grado di creare spazi e discorsi alternativi sul presente e sul passato. Leggiamo, scriviamo e divulghiamo dal margine, da prossimi e da stranieri: in una parola, da estranei.”

Ecco le risposte che hanno fornito alle nostre domande:      

Come è nato Estranei? Da quali esigenze? Qual è la sua storia e quali le sue prospettive?     

Estranei nasce dalla volontà di creare uno spazio di dialogo orizzontale e informale sulle aree di cui ci occupiamo, ossia la cultura e la produzione artistica dell’Europa centrale e orientale, fuori dal discorso accademico. Abbiamo notato come la ricezione dei testi e dei media di queste aree sia spesso inficiata da pregiudizi e preconcetti da un lato, e da un impianto accademico che trova poco spazio fuori dalle mura universitarie dall’altro; abbiamo quindi voluto ritagliare un nostro spazio online per una divulgazione informata ma fruibile, un po’ nei canoni dell’infotainment, e per la creazione di una community tra appassionate e appassionati di questi temi. Il progetto è nato a gennaio 2020, poco prima del disastro, e da un’iniziale strategia basata solo su post e articoli, quindi approfondimenti prevalentemente testuali, abbiamo poi avuto modo di tenere dei panel e delle presentazioni sia online che dal vivo, e abbiamo all’attivo collaborazioni con varie case editrici e realtà sul territorio, da spazi espositivi a biblioteche.

Spesso nell’affrontare l’ambito postcoloniale e decoloniale la linea abissale che viene affrontata è quella tra nord e sud, spesso dimenticandosi che ne esistono altre del tutto dimenticate, molto vicine a noi. In particolare, voi affrontate quella ad est, che porta dietro di sé tutta una serie di rappresentazioni e di feticizzazioni di stampo coloniale molto differenti da quelle di solito studiate. Se poi pensiamo al colonialismo italiano in epoca fascista nelle regioni istriane sul quale continua a esserci il tentativo di costruire una supposta identità italiana, il quadro è ancora più chiaro. Quali sono i caratteri principali attraverso i quali si definiscono le marginalità che definiscono la linea est-ovest?

La definizione della marginalità tra Est e Ovest è un problema tuttora dibattuto negli studi postcoloniali, perché la denominazione di “secondo mondo” che a volte compare nel discutere dei Paesi dell’ex blocco Est non è universalmente accettata, e i quadri concettuali utilizzati in ambito postcoloniale per i Paesi di “primo” e “terzo” mondo non sono applicabili all’area di cui ci occupiamo. Gran parte del discorso attuale si concentra sulle ragioni di questa omissione e sulla formulazione di criteri e impianti teorici che permettano l’inserimento di questi Paesi nel discorso globale, ma anche l’assimilazione di tutte queste realtà in un unico blocco omogeneo può rivelarsi una trappola ideologica. Il dibattito cerca quindi di traslare il discorso postcoloniale globale in un discorso postsocialista locale, dal momento che la stessa etichetta di “colonialismo” per indicare l’influenza dell’Unione Sovietica sul blocco Est è dibattuta. Anche l’utilizzo di nozioni cruciali come il concetto di orientalismo ha la sua problematicità in un contesto globale, perché continua a operare una distinzione per cui i Paesi occidentali disporrebbero d strumenti analitici superiori a quelli dell’Est, che diventano l’ennesimo spazio discorsivo di proiezione basato sull’alterità. Si può certamente riflettere sulle modalità di costruzione d quest’Altro, ma così facendo l’esperienza empirica di chi ha vissuto e vive nei Paesi postsocialisti viene rimossa dalla letteratura scientifica e privata della possibilità di parlare per sé. Il discorso sulla marginalità è tuttora un discorso aperto, e come accennato prima è diverso per ciascuno dei Paesi presi in esame: al di là delle particolarità linguistiche, sociali, storiche e religiose, la definizione di identità sul piano politico, iniziata dopo il 1989, è qualcosa di molto più recente rispetto a gran parte dei Paesi europei.

Nella presentazione sul vostro sito internet scrivete come quello della linea est-ovest sia uno “spazio totalmente bianco”, foriero di possibilità non scritte, uno spazio marginale. Tuttavia, proprio a partire da un Elogio del margine come possibilità di emancipazione fuori dalle rappresentazioni egemoniche si gioca la partita sull’esistenza e sulla resistenza di determinate possibilità che continuano a non poter parlare. Come si è sviluppata la vostra riflessione in questo senso e quali sono le pratiche (teoriche o meno) che avete voluto portare avanti nel vostro progetto?

Le pratiche che mettiamo in atto sono innanzitutto una questione di scelte degli argomenti trattati e delle tematiche a cui dare visibilità. Molti aspetti della contemporaneità, come appunto la decostruzione di un certo tipo di narrazione sull’Est, o la questione femminista e queer nei Paesi presi in esame, sono spesso trascurati dalle modalità in cui ci arrivano le informazioni sulla produzione culturale di queste aree. Cerchiamo quindi nel nostro piccolo di prestare attenzione a tematiche o approcci meno istituzionali, e di organizzare eventi, approfondimenti e punti di contatto anche con realtà apparentemente lontane da ciò di cui ci occupiamo.

Un argomento che avete più volte trattato è quello della rappresentazione razzializzata e sessualizzata delle donne dell’est che viene compiuta sia dai media che dal senso comune. In questo senso ci troviamo davanti a una doppia oppressione delle donne che stanno sulla linea est-ovest o al di là di questa: quella di donne e quella di donne razzializzate in quanto dell’est. Quali sono i caratteri principali di questa oppressione di genere – per così dire – geografica?

C’è una barzelletta che Žižek racconta su uno dei ponti che attraversano la Ljubljanica, il fiume che attraversa la capitale slovena. “Questo fiume”, dice, “è il limite geografico ufficiale tra i Balcani e la Mitteleuropa. Quindi state attenti: da un lato l’orrore, il dispotismo orientale, le donne che vengono stuprate e picchiate e a cui piace; dall’altro l’Europa, la civilizzazione, le donne che vengono stuprate e picchiate e a cui non piace”. Ovviamente il confine che separa Est e Ovest può essere convenientemente spostato come spesso succede anche all’interno di questi Paesi, ma la questione femminile rimane aperta per tutti. Per gli stessi motivi che rendono difficile la teorizzazione di criteri univoci e validi per tutti i Paesi che prendiamo in esame sarebbe impossibile, nonché scorretto, dare una definizione dell’oppressione di genere applicabile in tutta l’area. Quello che abbiamo cercato di fare è stato fornire gli strumenti per approfondire, sia attraverso la pubblicazione di traduzioni di testi di scrittrici femministe di vari Paesi che trattano proprio la condizione femminile, come Agnieszka Graff o Slavenka Drakulić, sia attraverso post o articoli completi di bibliografia, sia dando a studiose la possibilità di parlare in diretta delle proprie ricerche, come abbiamo fatto con Martina Cvajner, che nel suo lavoro sulla migrazione femminile ha analizzato anche gli stereotipi che abbiamo menzionato. Vale la pena sottolineare però che le politiche di genere sono intrinsecamente legate a quelle socio-economiche, e che se gli anni del socialismo hanno fatto pesare alle donne il doppio fardello del lavoro operaio aggiunto a quello domestico, la transizione al sistema del libero mercato (e, per alcuni Paesi, all’indipendenza) ha portato a una ridefinizione dei ruoli di genere che è tuttora oggetto di negoziazione.

Nella vostra presentazione dite di voler abbandonare la “falsa dicotomia tra cultura alta e cultura pop” e questo carattere è effettivamente presente nei vostri lavori sia nell’attenzione alle rappresentazioni di ciò che sta al di là della linea est-ovest nella letteratura e nel cinema che al ricorso ai meme come linguaggio di comunicazione sui social. Perché avete operato questa scelta – per altro condivisibile – rispetto ad un approccio maggiormente teorico?

Banalmente perché ne sentivamo la mancanza. Oltretutto abbiamo notato che le modalità di comunicazione su quest’area sono piuttosto polarizzate, e ci troviamo in disaccordo con entrambe: da un lato si porta avanti un’idea di seriosità e grigiore molto rigorosi, soprattutto in ambito accademico, dall’altro c’è da parte dell’Occidente una sempre crescente estetizzazione, che rasenta il feticismo e l’idealizzazione, di tutto ciò che è post-soviet (i palazzoni, i gopnik, l’esperienza socialista stessa). Volevamo creare un linguaggio che ci consentisse di mantenere le prerogative dell’una e dell’altra, la serietà della sostanza e l’aspetto pop della forma, togliendone gli aspetti che per noi sono problematici. Per quanto riguarda i meme e la scelta di una comunicazione un po’ più kek, è sia perché la viralità e l’approccio terra terra permettono di raggiungere un bacino maggiore di utenza, magari intimorita o più semplicemente annoiata da un taglio solo accademico, sia perché ci divertiamo a farlo. Crediamo che, a dispetto di preconcetti e intellettualizzazioni eccessive, la cultura e la sua condivisione passino anche per la gioia e per il divertimento, e vorremmo si riflettesse nei contenuti che portiamo.

 

Cristian Perra

Cristian Perra

Cristian Perra è ricercatore indipendente e laureando presso l’Università degli studi di Sassari all’interno del corso di laurea magistrale in Scienze storiche e filosofiche con una tesi dal titolo “Stare sulla linea abissale. Materiali per una critica della ragione coloniale” che discuterà nell’ottobre 2022. È Militante e attivista politico nel campo delle lotte contro l’occupazione militare della Sardegna. I suoi interessi di ricerca vertono sugli studi postcoloniali, sull’opzione decoloniale, sulla Teoria critica della società, in particolare l’esperienza filosofica di Theodor W. Adorno, e sulla storia critica delle idee. È membro del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, incentrato sull’applicazione al contesto sardo delle teorie e delle pratiche decoloniali.