VOCABOLARIO DECOLONIALE: COLONIALITÀ

di Cristian Perra

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Potrebbe sembrare inopportuno, o almeno curioso, parlare di punto di vista coloniale all’interno di coordinate storico geografiche come quelle in cui vive chi scrive: in un periodo storico post colonialismo storico e dal punto di vista di un uomo bianco che vive al margine della parte ricca del pianeta.

Tuttavia, vivere in un territorio periferico e marginalizzato come quello sardo permette di riconoscere l’esistenza di una linea abissale che distingue il nord dai sud del mondo, stando su di essa.

Si tratta di un limen che, usando le parole di Boaventura De Sousa Santos – sociologo, teorico decoloniale e autore di questa definizione – in Epistemologies of the south divide la realtà sociale in due mondi completamente diversi: quello al di qua della linea e quello al di là. La divisione è tale che tutto ciò che sta dall’altro lato della linea, ogni corpo e ogni territorio, svanisce come realtà, diventa inesistente, ed è effettivamente prodotto come inesistente nella narrazione ufficiale.

La linea abissale, dunque, è tracciata dai gruppi egemonici per espropriare corpi e territori, per mantenere in atto i rapporti di potere vigenti e per rendere allo stesso tempo invisibili chiunque non appartenga ai modelli dominanti.

Questa linea è allo stesso tempo materiale, filosofica, geografica ed epistemologica.

Rendendo invisibile la storia, la geografia e la filosofia – intesa come pensiero in grado di cogliere criticamente la temporalità e la spazialità nella quale i soggetti vivono, agiscono e patiscono dei gruppi subalterni la struttura coloniale è in grado così di mantenere e rafforzare le oppressioni coloniali, di classe e di genere.

Vi è infatti, nel periodo storico post-coloniale nel quale viviamo un ritorno del mondo coloniale.

Tale ritorno si presenta in varie forme: il terrorista, il lavoratore e la lavoratrice migrante senza documenti, la donna, le comunità LGBTQ+ e le persone che vivono territori marginalizzati sia all’interno delle città che in territori coloniali o paracoloniali.

In modi diversi, ognuna di questa soggettività porta con sé la linea globale abissale che definisce la loro esclusione radicale e non esistenza.

Il ritorno del coloniale non richiede necessariamente che il soggetto colonizzato sia fisicamente presente nelle società metropolitane. È sufficiente che egli si manifesti nella società e nella narrazione che questa si fa.

Il coloniale che ritorna è l’espressione della linea abissale: il suo ritorno avviene non solo negli ex territori coloniali, ma anche nelle società metropolitane.

Dopo la fine del colonialismo storico, la linea abissale persiste come colonialismo del potere, della conoscenza, dell’essere e continuando a distinguere la società metropolitana dalla società prettamente coloniale. Questi due mondi, con il processo di decolonizzazione, a mano a mano, si sono ibridati e coesistono nelle società postcoloniali, tanto nel Nord quanto nel Sud in senso globale geografico.

Il modo di produzione capitalistico, la struttura patriarcale della società e il colonialismo sono infatti componenti della medesima infrastruttura di dominio: la colonialità del potere.

Effettivamente ˗ come hanno dimostrato gran parte dei movimenti sociali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni ˗ rispetto alle posizioni delle sinistre radicali attente esclusivamente alla questione sociale, emergono dal margine, dalle soggettività marginalizzate (donne, comunità LGBTQ+ e comunità razzializzate), posizioni e pratiche critiche di stampo intersezionale, dalle quali emerge l’unità di tutte le lotte contro una struttura di dominio comune sebbene ognuna di esse si differenzi nella sua articolazione interna.  

Si tratta di un tipo dominio, chiaramente meno diretto e meno coercitivo di quello direttamente coloniale, ma molto più fine e subdolo. Esso si costituisce come una colonizzazione materiale, coscienziale e – per così dire – ontologica, di tutti quei corpi e quei territori che si trovano al di là della linea.  

Come nota la geografa Rachele Borghi in Decolonialità e privilegio, dopo la fine del colonialismo storico

abbiamo vissuto con l’illusione di aver superato il colonialismo nel momento in cui tutti i paesi sono diventati indipendenti politicamente, quando si è avviato il processo comunemente chiamato decolonizzazione. Ma questo in realtà è un processo che riguarda più la formazione degli Stati-nazione dal punto di vista formale e l’invenzione della nazione, niente a che vedere con la vita materiale delle persone. Non ha niente a che vedere nemmeno con la decolonizzazione del pensiero, con la cancellazione di gerarchie tra gli individui e con la sconfitta dei rapporti di dominazione.[1]

E ancora:

il colonialismo, si è cercato di metterlo tra parentesi, ogni parte l’ha fatto a modo suo: il soggetto ex-colonizzatore dicendo che era successo, nel bene e nel male, ma non poteva essere un fardello da portare avanti per sempre (e d’altronde mica tutto era negativo, c’erano anche molti aspetti positivi, i famosi bienfait della colonizzazione); il soggetto ex colonizzato dal canto suo ha cercato di mettere tra parentesi la faccenda pensando di poter riprendere da dove ci si era lasciati con in più la costituzione di un fantastico Stato-nazione.[2]

Quindi, la decolonizzazione è considerata come il processo storico di uscita dal colonialismo per arrivare all’indipendenza. Dopo la conclusione di questo processo la politica istituzionale ha portato avanti una retorica fatta di ‘incontro’, di ‘amicizia tra popoli’, di ‘progresso comune’ e di ‘sviluppo’, ma esiste un lato oscuro: progressivamente, infatti, lo sfruttamento coloniale, capitalistico e patriarcale si è esteso al di qua della linea abissale.

Anche il termine post-colonialismo, nonostante non avesse un valore temporale ma indicasse il superamento di un punto di vista sul mondo e il cambiamento di un paradigma, ha di fatto radicato l’idea che il mondo fosse uscito dal colonialismo e entrato in un periodo che si lasciava alle spalle la colonizzazione dei territori.

Insomma, scrive Borghi

ci siamo tutti illuse che il colonialismo fosse finito e che ora si partisse da zero dato che, per legge, tuttie siamo uguali, liberie e cittadinie di uno Stato-nazione. Il migliore dei mondi possibili.[3]

Questo tipo di dinamiche mostra come la violenza istituzionale si realizzi verso i corpi di quei soggetti oppressi, considerati scorie di colonialità, vittime sacrificali del sistema-mondo. 

I modelli culturali egemoni imposti dalla colonialità non rappresentano solo le minoranze, ma tolgono loro gli strumenti per parlare della propria esperienza. Emerge così un nuovo dispositivo di potere: quello della razzializzazione.

Per questo motivo l’ambito degli studi post-coloniali – i quali tuttavia forniscono una cassetta degli attrezzi fondamentale per identificare e combattere le determinazioni della colonialità del potere – non sono più sufficienti a spiegare le trasformazioni della struttura di dominio coloniale, capitalistica e patriarcale dopo la fine del colonialismo storico.

Da qui nasce l’opzione decoloniale.

La prima espressione formale della categoria di Colonialità del potere va attribuita, infatti, ad Aníbal Quijano il quale utilizza l’espressione colonialidad del poder, per definire lo scarto tra la colonizzazione come processo militare, politico e culturale limitato nel tempo e nello spazio – in una parola il colonialismo storico –, e la colonialidad come forma materiale del potere. Se il colonialismo è la pratica di conquista, assoggettamento e sfruttamento, la colonialità ha dimostrato di essere più duratura e profonda come sistema di potere, e questo in particolare poiché si fonda sulla giustificazione del ruolo dei colonizzatori come organizzatori razionali del mondo e portatori di un ordine superiore.

Nella sua prima formulazione in Colonialidad y Modernidad/Racionalidad (1992) la categoria è utilizzata da Quijano per ripensare in modo radicale la storia della modernità quale processo di progressiva globalizzazione che ha inizio con la colonizzazione del continente americano. Il fulcro della tesi è che l’espansione coloniale si accompagna alla costruzione di una gerarchia del mondo prima inesistente, per cui la categoria di razza, inventata appositamente, è stata indispensabile. Le strutture globali di potere che emergono così dal processo di colonizzazione del continente americano, mantengono le gerarchie interne storiche, aggiungendone di nuove, in cui i non-europei vengono collocati sempre negli strati inferiori, secondo una serie di nuove categorie: Oriente-Occidente, primitivo-civilizzato, irrazionale-razionale, tradizionale-moderno. Dentro questa costruzione, la categoria di razza e il principio della razionalità naturalizzano e legittimano le gerarchie tra pensiero europeo e non europeo. Così anche nella sua riformulazione illuminista, l’idea di razionalità ha mantenuto il proprio ruolo di categoria finalizzata alla costruzione di gerarchie sociali. Attribuendo una razza diversa ai popoli colonizzati, diviene possibile escludere in modo netto tutto ciò che non corrisponde al pensiero europeo, definendolo non razionale e vicino allo stato di natura. Essa si definisce dunque come un processo di divisione escludente del soggetto-uomo bianco da altri soggetti (persone non-europee, donne, etc.).

Quijano sostiene così come la razza sia diventata il principio di organizzazione sociale nella modernità, mentre, il modo di produzione capitalistico il modo di controllo operativo.

Insieme si pongono come fondamenti della colonialità del potere.

Essa si è costituita, quindi, a partire da una matrice capitalista coloniale, moderna ed eurocentrata che, come una spugna, si è imbevuta di razzializzazione. Il sistema-mondo, ovunque e comunque trasuda razzismo.

La matrice coloniale del potere è così europea, capitalistica, militare, bianca, cristiana, patriarcale, eterosessuale e ha nello Stato-nazione il suo centro operativo.

Il dispositivo della razzializzazione aveva ed ha così la funzione di codificare i rapporti tra popolazioni conquistatrici e conquistate sulla base dell’idea di una differenza biologica, psicologica e mentale, il concetto di razza fu l’escamotage che permise di naturalizzare i rapporti di dominazione.

In conformità della categoria di razza furono stabilite così delle nuove identità socio-storiche: spagnoli o portoghesi – bianchi ed europei arrivarono molto dopo – indios, negri e meticci.

Così la razza divenne uno dei criteri fondamentali per classificare la popolazione nella struttura di potere della nuova società, insieme alla natura delle posizioni sociali e dei ruoli occupati nella divisione del lavoro e nel controllo delle risorse di produzione.

Entrambi questi criteri erano strutturalmente collegati e si rinforzavano a vicenda, sebbene nessuno dei due dipendesse necessariamente dall’altro per esistere o per cambiare.

Uno degli elementi chiave di questa versione europea/occidentale della razionalità moderna consiste in una mutazione del vecchio modo dualista di guardare all’universo, che contribuì più di ogni altra cosa a cambiare i rapporti tra corpo e non-corpo (soggetto, spirito o ragione) e tra Europa e non-Europa.

L’altra idea prevalente era costruita dalla visione della società come struttura organica, dove le parti sono legate secondo le stesse regole di gerarchia presente tra gli organi.

Esiste così una parte, il cervello, che governa tutte le altre parti dell’organismo, sebbene per esistere non possa cancellarli, mentre le estremità non possono esistere senza essere subordinatamente correlate alla parte dominante dell’organismo.

I proprietari sono il cervello e gli operai sono le braccia che formano la società insieme al resto del corpo. Senza il cervello, le braccia sarebbero prive di significato, e senza quest’ultimo il cervello non potrebbe esistere. Entrambi sono necessari per mantenere vivo e sano il resto del corpo senza il quale né il cervello né le braccia potrebbero esistere.

In entrambe le sfere, la versione europea o eurocentrica della diade modernità/razionalità implicava un’autentica novità. Innanzitutto, a differenza di tutti gli immaginari non-occidentali, il corpo fu semplicemente dimenticato come componente necessaria dell’idea di umano o di Persona e relegata ad una estensione della razionalità.

 In questo contesto, il corpo era installato nella conoscenza razionale come un oggetto di studio di status inferiore.

In secondo luogo, i rapporti tra europei e non-europei soffrivano di un’alterazione temporale: tutto ciò che non è europeo appartiene al passato, e così è possibile pensare a quei rapporti in una prospettiva evoluzionista.

Senza l’espulsione del corpo dal regno dello spirito attraverso la sua ‘oggettivazione’, difficilmente sarebbe stata possibile la presunzione di elaborare ‘scientificamente’ o ‘teoricamente’ l’idea di razza, come invece avvenne nei secoli che seguirono, soprattutto nel XIX secolo. Le ‘razze inferiori’ sono tali perché sono oggetti di studio o di dominio, di sfruttamento e di discriminazione, non sono soggetti, e soprattutto non sono soggetti razionali in quanto li si può legittimamente dominare e sfruttare.

Basti solo pensare alle opere di Lombroso o di Niceforo, per quanto riguarda la Sardegna.

Solo da quello specifico punto di vista era razionalmente’ possibile considerare tutti i popoli non-europei come il passato: considerandoli oggetti di conoscenza o di dominio e sfruttamento per gli europei.

Tutto ciò apri la strada a una prospettiva storica di matrice evoluzionista, cosicché si poterono collocare tutti i non-europei, in relazione agli europei, in una catena storica continua da ‘primitivo’ a ‘civilizzato’, da ‘irrazionale’ a ‘razionale’, da ‘tradizionale’ a ‘ ‘moderno’, da ‘magico-mitico’ a ‘scientifico’; in altre parole, da non-europei a qualcosa che, nel tempo, potesse essere europeizzato o ‘modernizzato’.

Contro ogni esperienza storica, passata o presente, la versione europea/occidentale della conoscenza razionale fu elaborata e sviluppata da una prospettiva strettamente eurocentrica. Sarebbe difficile spiegare una traiettoria intellettuale così particolare senza considerare l’intera esperienza del colonialismo e della colonialità.

Perfino le necessità del capitale in quanto tale non bastano a spiegarla. Ed ancora più difficile spiegare un’egemonia mondiale così duratura di tale prospettiva.

Con la conquista delle società e delle culture che abitano quella che oggi viene chiamata America Latina, iniziò la costituzione di un nuovo ordine mondiale, culminato, cinquecento anni dopo, in un potere globale che copre l’intero pianeta. Questo processo ha comportato una violenta concentrazione delle risorse mondiali sotto il controllo e a beneficio di una piccola minoranza europea e, soprattutto, delle sue classi dirigenti.

Tuttavia, quella specifica struttura coloniale del potere ha prodotto le specifiche discriminazioni sociali che poi sono state codificate come ‘razziali’, ‘etniche’, ‘antropologiche’ o ‘nazionali’, a seconda dei tempi, degli agenti e delle popolazioni coinvolte.

Queste costruzioni intersoggettive, prodotto della dominazione coloniale eurocentrica, erano addirittura considerate categorie ‘oggettive’, ‘scientifiche’, quindi storicamente determinate.

Cioè, come fenomeni naturali, non riferiti alla storia del potere. Questa struttura di potere era, ed è tuttora, la cornice entro la quale operano le altre relazioni sociali delle classi o dei ceti.

Allo stesso modo, nonostante sia stato eliminato quasi del tutto il colonialismo politico, il rapporto tra la cultura europea detta anche ‘occidentale’, e le altre, continua ad essere di dominio coloniale.

Non si tratta solo di subordinazione delle altre culture all’Europa, in una relazione esterna; si tratta anche di una colonizzazione delle altre culture, sia pure con intensità e profondità differenti.

Questo rapporto consiste, in primo luogo, in una colonizzazione dell’immaginario dei dominati; cioè agisce all’interno di quell’immaginario, in un certo senso ne fa parte.

I colonizzatori hanno anche imposto un’immagine mistificata dei propri modelli di produzione di conoscenza e significato. In un primo momento, hanno posizionato questi modelli molto fuori dalla portata dei dominati.

Poi la cultura europeo-occidentale è stata resa seducente: ha dato accesso al potere. Dopotutto, al di là della repressione, lo strumento principale di ogni potere è la sua seduzione. L’europeizzazione culturale – e poi l’americanizzazione – si è trasformata in un’aspirazione.

Durante la dominazione coloniale europea del mondo, la distribuzione del lavoro dell’intero sistema capitalistico mondiale, tra salariati, contadini indipendenti, mercanti, schiavi e servi, era organizzata sostanzialmente secondo le stesse linee ‘razziali’ della classificazione sociale globale, con tutte le implicazioni per i processi di nazionalizzazione delle società e degli stati, e per la formazione degli stati-nazione, della cittadinanza, della democrazia e così via, nel mondo.

Quindi, la colonialità del potere si basa sulla classificazione sociale ‘razziale’ della popolazione mondiale sotto il potere mondiale eurocentrico, ma la colonialità del potere non si esaurisce nel problema delle relazioni sociali razziste.

Bibliografia per Approfondire

  • Ascione, Gennaro (a cura di), America latina e modernità. L’opzione decoloniale. Saggi scelti, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2014.
  • Borghi, Rachele, Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Meltemi, Milano, 2020.
  • De Sousa Santos, Boaventura, Epistomologies of the south. Justice against epistemicide, Routledge, London, 2016.
  • The end of the Cognitive Empire. The Coming of Age of Epistemology of the South, Duke University Press, Durham, 2018, trad. La fine dell’impero cognitivo. L’avvento delle epistemologie del Sud, a cura di Samuele Mazzolini, Castelvecchi, Roma, 2021.
  • Quijano, Anibal, Coloniality of Power and Eurocentrism in Latin America, in International Sociology, vol. 15, n. 2, 2000, pp. 215-232, trad. Colonialità del potere ed eurocentrismo in America latina, In Ascione, Gennaro (a cura di), America latina e modernità. L’opzione decoloniale. Saggi scelti, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2014.
  • Coloniality and modernity/rationality, in Cultural Studies Vol. 21, Nos. 2-3 March/May 2007.

Note:

[1] Rachele Borghi, Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Meltemi, Milano, 2020, p. 33.

[2] Ivi, pp. 33-34.

[3] Ivi, p. 35.

Cristian Perra

Cristian Perra

Cristian Perra è ricercatore indipendente e laureando presso l’Università degli studi di Sassari all’interno del corso di laurea magistrale in Scienze storiche e filosofiche con una tesi dal titolo “Stare sulla linea abissale. Appunti per una critica della ragione coloniale” che discuterà nell’ottobre 2022. È Militante e attivista politico nel campo delle lotte contro l’occupazione militare della Sardegna. I suoi interessi di ricerca vertono sugli studi postcoloniali, sull’opzione decoloniale, sulla Teoria critica della società, in particolare l’esperienza filosofica di Theodor W. Adorno, e sulla storia critica delle idee. È membro del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, incentrato sull’applicazione al contesto sardo delle teorie e delle pratiche decoloniali.