VOCABOLARIO DECOLONIALE: MATERIALISMO GEOGRAFICO

di Cristian Perra

Tempo di lettura

14 Minuti

Group-73.png

 

Vorrei ricordare, per sottolineare ciò che metteremo in luce in questa trattazione le parole che lo storico britannico Eric Hobsbawm – autore per citare un esempio tra le svariate opere, de Il secolo breve – rivolge ad Antonio Gramsci nell’occasione dei 70 anni dalla morte del filosofo di Ghilarza.

Conosco poco la tua Sardegna, è vero che ci sono stato (anche in Barbagia, per il momento), ma davvero è difficilissimo capire la natura dell’ambiente in cui sei nato e cresciuto. Invece sì queste regioni – diciamo, che sono allo stesso tempo nazionali e periferiche, che sono allo stesso tempo centrali, legate al centro, e insomma oppresse dal centro – io le conosco bene perché vengo da un vecchio impero e da un paese multinazionale che non è solo quello degli inglesi ma anche dei gallesi. E quando sono nella mia piccola casa in Galles (che è un paese un po’ periferico) capisco un po’ ciò che sentono i Sardi in relazione all’Italia e al mondo più grande. Tu, Nino, sei stato molto di più di un Sardo ma senza la Sardegna è impossibile capirti.[1]

Quando Hobsbawm pronuncia queste parole tiene presente come a partire da Gramsci si sia sviluppata dall’India, al Sud-America, al medio-oriente, una intera costellazione di teorie e pratiche ispirate all’opera del filosofo di Ghilarza. Queste teorie possono essere ricondotte ad un nucleo comune: il concetto di marginalità, per il quale Gramsci avrebbe utilizzato la categoria di subalternità.

Per tutte queste esperienze, si tratta di applicare non solo il materialismo storico alla realtà coloniale, ma anche – per riprendere la concettualizzazione di Edward Said, un materialismo geografico che consideri come determinante nei rapporti di potere non tanto le dinamiche di sfruttamento all’interno del modo di produzione capitalistico, quanto le sue topologie e la sua dislocazione geografica. Si tratta di teorie che hanno origine nella traduzione dell’itinerario filosofico di Gramsci ma che si svilupperanno in maniera autonoma nel mondo ispirate dall’esperienza del filosofo di Ghilarza.

Come scrive Antonio Baratta, tra i fondatori della International Gramsci Society e avanguardia della lettura non filologica del pensatore di Ghilarza in Gramsci in contrappunto

L’intuizione di Said, nel solco tracciato da Gramsci, è la necessità di riannodare il nesso fra questione territoriale, lotta egemonica e democrazia, intesa quest’ultima come unica praxis in grado di opporre resistenza ai flussi giganteschi di datti e di idee propugnati da opposti fondamentalismi, forieri di violenza di guerra e di terrorismo.[2]

Queste teorie, riconducibili a partire da Said a una classificazione molto generale come studi post-coloniali (o studi culturali) permettono di identificare alcune delle coordinate metodologiche in grado di fornire una cassetta degli attrezzi attraverso le quali combattere le oppressioni di genere, di classe e di etnia. Parleremo di contrappunto, di critica della totalità, e di traducibilità, di spirito di scissione e di marginalità con e oltre Gramsci.

L’intuizione gramsciana che permette alle studiose e agli studiosi postcoloniali e decoloniali di poter ampliare e distendere le categorie del marxismo occidentale – compito ispirato dal Fanon de I dannati della terra – è senza dubbio quella della spazializzazione del conflitto di classe, il quale travalica sé stesso in altre geografie planetarie.  Edward Said avrebbe definito questa impostazione osservabile, secondo il nostro filosofo – nell’opera gramsciana successivamente come materialismo geografico, incentrato sul notare come il conflitto di classe all’interno del modo di produzione capitalistico avvenga già dopo una esclusione, quella delle soggettività extra-europee le quali hanno pagato il prezzo dell’accumulazione originaria prima che – in occidente – avvenisse «il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione»[3].

Del resto, sin dalle sue prime opere Said era stato molto attento alle determinazioni “spaziali” che si potevano trovare nel discorso imperialista. Innanzitutto, in senso metaforico, riferito cioè all’impiego di una serie di metafore-concetto “spaziali” che avevano la funzione di ridimensionare il legame tra coscienza e temporalità, troppo legato alle tematiche di un soggetto trascendentale universale e senza storia; per poi far ruotare la critica ai rapporti coloniali di potere attorno ad una visione più concretamente geopolitica dello spazio.

Said riprende gli scritti gramsciani sulla questione meridionale in quanto questi presentano un vero e proprio approccio geografico al tema dei rapporti di potere tra classi rompendo lo schema classico di una transizione tarata sull’unico parametro della temporalità e su un eventuale collasso del modo di produzione capitalistico. Questo schema, infatti, presuppone la convergenza delle tante esperienze storico-sociali verso un corso storico progressivamente omogeneo non terrebbe conto di tutti i movimenti spontanei compiuti dai gruppi subalterni.

L’analisi gramsciana della storia sociale dello stato italiano cerca di spezzare la dicotomia tra il Nord e il Sud per intersecare territori, le storie delle compagini subalterne e ricostruire un nuovo blocco sociale degli operai del Nord e dei contadini del Sud, superando resistenze di lunga durata nella storia del movimento operaio italiano. Ciò serve a Said come punto di partenza per ricollocare la dialettica di egemonia e controegemonia nel rapporto tra cultura e imperialismo.

Il confronto di Gramsci con la questione meridionale, ovviamente, è un capitolo fondamentale della distensione della teoria marxista a proposito della dimensione “spaziale”, geografica, dello sviluppo capitalistico – delle differenze che il capitalismo incontra e sussume nella geografia diseguale del suo sviluppo. La grande disgregazione, la figura con cui si presenta a Gramsci il Mezzogiorno in Alcuni temi della quistione meridionale (1926), diventa in questo senso anche una metafora della continua proliferazione di queste “differenze” su scala mondiale.

Un elemento per far risultare evidente l’impostazione spaziale nell’opera di Gramsci potrebbe essere il ricorso ad una delle Lettere dal carcere, redatta nel 1931 e indirizzata al fratello Carlo nella quale il pensatore sardo commenta brevemente il testo di H. G. Wells Breve storia del mondo elogiandolo per aver considerato una dimensione non eurocentrica e legata alle altre latitudini del mondo.

Scrive Gramsci, infatti come il testo di Wells

È interessante perché tende a spezzare l’abitudine invalsa di pensare che sia esistita storia solo in Europa specialmente nei tempi antichi; il Wells parla della storia antica della Cina, dell’India di quella medioevale dei Mongoli con lo stesso tono con cui parla della storia europea. Dimostra che dal punto di vista mondiale l’Europa non deve essere più una provincia che si crede depositaria di tutta la civiltà mondiale[4]

In Gramsci il materialismo geografico, inoltre, si esprime nel concetto di traducibilità. Per traducibilità, infatti, Gramsci intende una dinamica dei concetti, il costante passaggio tra una cultura e l’altra, tra linguaggi e tra esperienze teoriche e pratiche, proprio come le rifrazioni della luce su un prisma. La tensione quindi si dà, di fatto, tra dialettica e traducibilità, tra reificazione e riflessione si esprime nell’esperienza del soggetto che cerca il suo posto del mondo.

La riflessione compiuta da Gramsci nel Quaderno 1 sul feticismo dell’unità è infatti legata a un motivo pressoché politico: quello dell’indissolubilità dello stato italiano all’interno di una serie di riflessioni sulla questione meridionale e sulla repressione delle istanze del Sud. Ci troviamo quindi davanti alla sussunzione di un intero mondo, quello meridionale, al dominio del centro, del sistema, dello stato che ne è espressione.

Le analisi gramsciane sulla questione meridionale, infatti, sono state in gran parte di ispirazione per tutto l’ambito degli studi postcoloniali. La questione meridionale all’interno dello stato italiano è diventata, de facto, una questione globale dove sono le classi egemoniche a decidere chi e cosa sia sud.

A questo proposito Iain Chambers scrive:

Questa angolazione ci aiuta a capire, con tutte le sfumature di interpretazioni, magari anche approssimative, perfino “sbagliate”, la presenza costante dell’opera di Gramsci nella formazione degli studi culturali e postcoloniali negli ultimi trent’anni, soprattutto quando fa capire, con tutte le sfumature di interpretazioni, magari anche approssimative, perfino “sbagliate”, la presenza costante dell’opera di Gramsci nella formazione degli studi culturali e postcoloniali negli ultimi trent’anni, soprattutto quando la questione meridionale viene estesa a una cartografia planetaria.[5]

Come scrive Ranajit Guha, storico indiano e padre degli studi subalterni in Omaggio ad un maestro, dedicato proprio al filosofo di Ghilarza,

la lezione di Gramsci ci offriva un aiuto prezioso; tuttavia, per poterne beneficiare, dovevamo adattarla all’esperienza indiana, che, naturalmente, era molto diversa da quella italiana, e più in generale occidentale, su cui quelle riflessioni si basavano.[6]

Le teorie gramsciane permettono di osservare specificità che consentono agli storici indiani, una più agevole traduzione del pensiero di Gramsci per la lettura dell’esperienza del loro paese. In generale, se c’è una particolarità che accomuna il collettivo dei Subaltern studies, essa va sicuramente rintracciata nella creatività adoperata per la traduzione del pensiero gramsciano. I membri del collettivo instaurano un confronto sicuramente non sempre aderente al testo dal punto di vista filologico (anche per via del riferimento alla selezione di testi in inglese come fonte principale e al mancato accesso al testo integrale) ma tuttavia per tanti versi proficuo sia per l’accresciuta notorietà del pensiero gramsciano, il quale è considerato uno degli autori più studiati al mondo, sia per la sua continua riformulazione e traduzione funzionale ad un utilizzo materialista geografico per l’analisi di contesti diversi dall’Italia dei Quaderni.

Stuart Hall, sociologo e figura di spicco degli Studi culturali della scuola di Birmingham, sosteneva che, nel portare avanti un lavoro intellettuale, in particolare da una prospettiva di azione politica, era necessario strappare la teoria alla sua purezza. Ciò significa non relegare alcuna elaborazione teorica in un simulacro immutabile, condannandola, di fatto, a non esistere più nel presente, a non vivere più. Perché una teoria continuasse a vivere, secondo Hall, essa andava sempre, costantemente, riportata sulla terra, tra la molteplicità dei viventi, sporcata di umano, strappata al paradiso, sottratta agli angeli.

La doppiezza tra una visione gramsciana pura ed una impura, tradotta nei vari contesti nei quali le teorie del pensatore sardo venivano e vengono applicate, non può essere attribuita esclusivamente ad uno scarso rigore filologico. Hall ha tratto da Gramsci gli strumenti di cui aveva bisogno per agire politicamente ed intellettualmente nel suo contesto di riferimento: «ideas and theories travel from person to person, from situation to situation, from one period to another»[7], scriveva Said, ed è in questo viaggio che esse subiscono la pressione delle diverse traduzioni e intersezioni, rispetto alla loro condizione di partenza.

Come scrive Hall:

Anche se Gramsci non ha mai parlato direttamente dei problemi del razzismo, i temi predominanti nella sua opera forniscono collegamenti teorici, più profondi di quanto un rapido sguardo al suo lavoro potrebbe suggerire, con molte problematiche attuali.[8]

E ancora, riferendosi all’attualità di Gramsci:

Non ha mai perso interesse per le relazioni di dipendenza e disuguaglianza che collegavano il “Nord” e il “Sud” e per le complesse relazioni tra città e campagna, contadini e proletariato, clientelismo e modernizzazione, strutture feudali e strutture sociali industriali.[9]

Il materialismo geografico si fonda, dunque, su un’attenzione alla dimensione spaziale dello sfruttamento capitalistico, assumendo come asse ulteriormente in grado di complicare l’analisi marxiana quello della geografia diseguale. In altri termini, assumere il capitalismo globale non solo come emanazione di una configurazione ben specifica di rapporti economici, sviluppatasi come fatto interno all’Europa e poi esportata in giro per il mondo.

Al contrario, questa ipotesi riposa proprio sull’idea che il Capitale si sia radicalmente modificato all’interno dell’esperienza di diffusione per il mondo, o, più precisamente, che il Capitalismo sia strutturalmente costituito delle modalità organizzative che esso si è dato all’interno dell’esperienza coloniale, mediante il contatto con l’eterogeneità con la forza-lavoro da sfruttare, delle condizione economiche di partenza, delle materie prime disponibili, delle forme di vita, e quindi, in maniera decisiva, dell’esperienza della razza.

Quindi, come dimostrato dall’intero filone di ricerca dei cosiddetti Studi postcoloniali, il materialismo geografico fa sì che teorie e pratiche sviluppatesi in diverse aree del mondo possano essere adattate a geografie completamente diverse. Si tratta di quella che Gramsci chiamava traducibilità.

Certamente, vi può essere traducibilità tra culture che possiedono comuni posizionamenti e rapporti di potere. L’utilizzo delle categorie gramsciane per l’analisi di un paese come l’India per quanto riguarda i Subaltern studies – ad esempio – è stato possibile solo grazie alle somiglianze con le particolarità storiche italiane che hanno visto, negli ultimi due secoli, uno Stato sì integrato nella modernità occidentale, ma che al tempo stesso mantiene costantemente una specifica arretratezza, per cui ogni innovazione si presenta sotto forma spuria rispetto al modello idealizzato di sviluppo.

Quindi non si tratta di un atto di traduzione tra lingue, ma tra linguaggi – intesi come nome collettivo, come tratteremo in seguito – tra esperienze, realtà storiche, configurazioni storico-politiche. D’altronde, un’analisi del concetto di traduzione ci indica che questo uso gramsciano non è nemmeno così metaforico, dato che una traduzione non è mai puramente linguistica, ed è sempre traduzione di un’esperienza (culturale, sociale, politica), di fatto un adattamento al contesto. Insomma, il significato gramsciano che possiamo trarre è che la traduzione è un processo di realizzazione, di trasposizione delle idee tenendo conto delle particolarità concrete della cultura d’arrivo dove le idee si intendono introdurre, mettere in atto.

A differenza di una mera applicazione degli schemi concettuali e politici in un altro contesto, la traduzione richiede non solo una conoscenza della realtà nella quale si traduce, ma anche di star dentro la realtà concreta del contesto di riferimento. La traduzione investe dunque un processo dialettico e immanente della realizzazione del passaggio tra realtà particolari.

Gramsci parla di traducibilità tra le culture – definendola come vero esempio di materialismo storico a partire dagli esempi di Lenin e di Marx. La traducibilità ha sempre a che fare con il rapporto tra teoria e pratica. Se la traducibilità non coincidesse con il concetto di unità di teoria e pratica, esso, stando a Gramsci, si ridurrebbe a una procedura di trasposizione meccanica, o a dei rigidi schematismi.

Nella lettura che Gramsci fa di Lenin (attraverso un atto di traduzione non fedele alla fonte[10]), il teorico bolscevico avrebbe detto che «non abbiamo saputo ‘tradurre’ nelle lingue ‘europee’ la nostra lingua»[11].

Ma l’origine del concetto di traducibilità è senz’altro marxiana. Marx ed Engels, infatti nella Sacra famiglia, descrivono come il linguaggio della politica francese rappresentasse la traduzione della filosofia classica tedesca, applicando schemi concettuali simili a contesti e ambiti completamente diversi.

Come scrivono Marx ed Engels nella Sacra famiglia:

“Se il signor Edgar paragona per un momento la eguaglianza francese con l’autocoscienza tedesca, troverà che il secondo principio esprime in tedesco, cioè nel pensiero astratto, ciò che il primo dice in francese, cioè nella lingua della politica e del pensiero intuitivo. L’autocoscienza è l’uguaglianza dell’uomo con sé stesso nel puro pensiero … L’eguaglianza è il modo francese di esprimere l’unità essenziale degli uomini.[12]

Scrive infatti Gramsci riconoscendo l’importanza capitale di questo processo:

Ho citato parecchie volte il brano in cui Marx, nella Sacra famiglia, dimostra come il linguaggio politico francese, adoperato da Proudhon, corrisponda e possa tradursi nel linguaggio della filosofia classica tedesca. Questa affermazione mi pareva molto importante per comprendere l’intimo valore del materialismo storico.[13]

Quindi tra culture diverse, sia spazialmente che temporalmente, per Gramsci, può esserci una traduzione delle esperienze teoriche e politiche. Proprio la ripresa dello stesso filosofo gramsciano da parte di Said, di Fanon, di Spivak e del collettivo dei Subaltern Studies dimostra come questo processo sia alla base di ogni tentativo di applicare il materialismo geografico.

Per concludere riportiamo una citazione di Said da Storia, letteratura e geografia:

In tutti i suoi testi Gramsci fa a pezzi ogni ingenua distinzione tra teoria e prassi all’insegna di una nuova unità tra le due sfere, che definisce ricorrendo alla nozione di lavoro intellettuale concreto. I suoi scritti sono quindi concepiti come un contributo alla prassi e come una dichiarazione teorica che di volta in volta si autogiustifica. In coerenza con quanto sostenuto al punto 3), si può vedere qui come tutte le idee, tutti i testi e tutti gli scritti siano radicati in situazioni geografiche concrete che li rendono possibili e come ciò a sua volta conferisca loro una particolare estensione istituzionale e temporale. La storia deriva quindi da una geografia discontinua.[14]

Note:

[1] Eric Hobsbawm, Caro Nino, in Giorgio Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Carocci, Roma, 2007, p. 13.

[2] Giorgio Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Carocci, Roma, 2007, p. 43.

[3] Il Capitale, cit., p. 813.

[4] Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino, 1965, p. 498.

[5] Iain Chambers (a cura di), Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale, Meltemi, Milano, 2006, p. 8.

[6] Ranajit Guha, Omaggio a un maestro, in Gramsci, le culture e il mondo, a cura di Giancarlo Schirru, Viella, Roma

2009, p. 34.

[7] Edward Said, Travelling Theory, in M. Bayoumi, A. Robin, a cura di, The Edward Said Reader, London,Vintage Books, 2000, pp. 195-196.

[8] Ibid.

[9] Stuart Hall, Gramsci’s relevance for the study of race and ethnicity, in Critical dialogs in Cultural studies trad. it. L’importanza di Gramsci per lo studio della razza, in Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, a cura di Filippo del Lucchese, Meltemi, Milano, 2006, pp. 148-149.

[10] La fonte di questa citazione di Lenin in realtà è parte di una relazione al Quarto Congresso dell’Internazionale del 13 novembre 1922, dove egli non dice “noi non abbiamo saputo ‘tradurre’”, ma “non abbiamo capito come si deve mettere la nostra esperienza russa alla portata degli stranieri” riferendosi all’impossibilità di esportare la rivoluzione bolscevica.

[11] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valerio Gerratana, Einaudi, Torino, 2007, p. 854 e p. 1468.

[12] Karl Marx, Friedrich Engels, Die heilige Familie, oder Kritik der kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer & Consorten, in Marx-Engels-Gesamtausgabe, Bd. III, Dietz Verlag, Berlin, 1845, trad. it. La sacra famiglia, a cura di Aldo Zanardo, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 47.

[13] Quaderni del Carcere, cit., p. 467.

[14] Edward Said, History, Literature e Geography, in Reflections on Exile and Other Essays, Harvard University Press, Harvard, 2002, trad. it. Storia, letteratura e Geografia, in Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, a cura di Massimiliano Guareschi, Federico Rahola, Feltrinelli, Milano, 2008.

Cristian Perra

Cristian Perra

Cristian Perra è ricercatore indipendente. Laureato presso l’Università degli studi di Sassari all’interno del corso di laurea magistrale in Scienze storiche e filosofiche con una tesi dal titolo “Stare sulla linea abissale. Appunti per una critica della ragione coloniale” che discuterà nell’ottobre 2022. È Militante e attivista politico nel campo delle lotte contro l’occupazione militare della Sardegna. I suoi interessi di ricerca vertono sugli studi postcoloniali, sull’opzione decoloniale, sulla Teoria critica della società, in particolare l’esperienza filosofica di Theodor W. Adorno, e sulla storia critica delle idee. È membro del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, incentrato sull’applicazione al contesto sardo delle teorie e delle pratiche decoloniali e responsabile editoriale del sito omonimo.