VOCABOLARIO DECOLONIALE: SVILUPPO

di Andrìa Pili

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Il concetto di sviluppo economico nelle scienze sociali

Lo sviluppo è un concetto polisemico che rimanda a una condizione oppure a un processo, un percorso da intraprendere o un obiettivo da raggiungere; come tale è associato a concetti quali quelli di progresso, crescita e trasformazione (Bottazzi 2009). Nella scienza economica lo sviluppo è definito come il “processo di crescita della produzione dei beni a disposizione della popolazione di un Paese” (Garzanti 2011). Tale definizione risente della teorizzazione di Simon Kuznets (1966,1973) a proposito della “crescita economica moderna”, affermatasi a partire dalla Rivoluzione Industriale e con la diffusione dei suoi effetti nel XIX secolo, cui sono attribuite le seguenti caratteristiche: alti tassi di crescita del prodotto pro capite e della popolazione; crescita del tasso di produttività; alto tasso di trasformazione strutturale; cambiamenti rapidi delle strutture sociali e della cultura; capacità di connettersi con il resto del mondo grazie all’avanzamento tecnologico nelle comunicazioni e nel trasporto. In Schumpeter (1911) lo sviluppo economico è un processo verso la rottura di un equilibrio precedente nel sistema economico, attraverso la creazione – da parte dell’imprenditore-innovatore – di nuove combinazioni quali la produzione di un nuovo bene; un nuovo metodo di produzione od organizzazione industriale, finanziaria e commerciale; l’apertura di nuovi mercati, la conquista di nuove fonti di offerta per materie prime o semilavorati. Ciò avviene tramite un processo di distruzione creatrice (Schumpeter 1942) generata all’interno della struttura economica; tale processo continuo viene identificato come l’essenza del capitalismo e tale modo di produzione, dunque, come l’unico che garantisca il suo avvenimento e quindi consenta lo sviluppo.

L’enfasi su elementi quali la produzione, il cambiamento strutturale socioeconomico e il progresso tecnologico, ci consentono di comprendere come mai lo sviluppo sia associato ai concetti di crescita e di modernizzazione e perché – almeno dalla fine del socialismo reale – il capitalismo sia visto come l’unico sistema possibile attraverso cui esse possano realizzarsi, in quanto basato sui diritti di proprietà che garantiscono gli incentivi necessari alla produzione di innovazione (Aghion et al. 2021). Oltre a ciò, si può dedurre che i Paesi sviluppati siano tali in quanto capaci di generare un meccanismo endogeno di crescita.

Tuttavia, crescita e sviluppo economico non sono sinonimi: non può esserci sviluppo senza crescita ma può esserci anche crescita senza sviluppo. Si pensi all’aumento del PIL nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, nel primo decennio 2000, causato dall’ascesa dei prezzi delle materie prime e rivelatrice della grande rilevanza che, in tali contesti, ha ancora il settore primario. Inoltre, nei Paesi ricchi è possibile avere fasi di recessione economica tipiche della propria condizione “sviluppata” (es. crisi di sovrapproduzione del 1929 e crisi finanziarie tra Novecento e il 2008). Da un punto di vista strutturale, invece, sviluppo economico e modernizzazione coincidono, in quanto intesi come un mutamento della composizione dei tre settori principali nella produzione di un Paese, evolvendo – lungo gli ultimi due secoli – dalla dominazione dell’agricoltura a quella del terziario, passando attraverso un periodo di industrializzazione, in termini di importanza relativa di lavoro, valore aggiunto e consumo.

La teoria dello sviluppo economico – differenziata dalle altre branche della scienza economica per la sua attenzione sugli elementi dinamici del sistema – avviene sotto l’influenza di due grandi eventi: la Grande Depressione, con l’ascesa del pensiero keynesiano e la sua enfasi sul ruolo della spesa pubblica per sopperire alle mancanze del mercato nel breve periodo; la decolonizzazione, che impone agli economisti di affrontare il tema della crescita economica nel cosiddetto Terzo Mondo. Con il modello dualistico di Arthur Lewis (1954) nasce la prima teoria dello sviluppo propriamente detta pensata per i paesi sottosviluppati, diretta ad illustrarne la transizione da un’economia prevalentemente agricola ad un’economia industrializzata (Piras 2002). L’economista antillano utilizzò gli strumenti dei modelli keynesiani di crescita al fine di spiegare l’uscita degli Stati Uniti dalla recessione: dato il surplus di lavoro (nel settore agricolo, per Lewis, fra i disoccupati creati dalla crisi secondo gli epigoni di Keynes) gli investimenti in capitale nel settore industriale portano alla crescita economica, impiegando tutti coloro che migrano verso l’area avanzata del proprio Paese attratti dal salario promesso, più alto rispetto al settore tradizionale, data la maggiore produttività del lavoro. Il quadro teorico di riferimento si fonda sulla centralità dell’accumulazione di capitale fisico per lo sviluppo economico. Il capital fundamentalism (Easterly 2001) sarà la convinzione di fondo che dominerà la teoria della crescita sino alla fine degli anni’70, condivisa sia dai modelli keynesiani che dal successivo modello neoclassico di Solow. Possiamo così riassumere il suo meccanismo ricorsivo: gli investimenti in capitale aumentano il tasso di crescita, quest’ultimo porta all’aumento del reddito e quindi del livello di risparmio necessario per nuovi investimenti. Ne consegue che i Paesi sottosviluppati – data la minima propensione al risparmio – si trovino in una trappola della povertà (Weil 2007), dove i livelli di reddito pro capite e tasso di risparmio si sostengono a vicenda verso il basso. Da qui sorge l’idea degli aiuti ai paesi poveri, entro l’approccio del gap finanziario (Easterly 2001): la differenza tra gli investimenti in capitale necessari allo sviluppo e il livello di risparmio deve essere necessariamente colmata dall’esterno.

Scienze sociali quali la sociologia e l’antropologia hanno prestato attenzione al concetto di sviluppo associato a cambiamenti nelle istituzioni, nella società (comportamenti) e nella cultura (aspettative). Gli antropologi Chris Hann e Keith Hart nel loro manuale di antropologia economica (2011) lo definiscono come il “febbrile slancio dell’umanità dal villaggio alla città” connesso con la crescita economica spinta dal capitalismo e la diseguaglianza. Luciano Gallino nel suo dizionario di sociologia (2006) descrive la modernizzazione come “occidentalizzazione” e trasformazione socioeconomica verso un modello di società moderna fondato sulle conquiste della rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese. Il pensiero socioantropologico degli anni’50-’70 è dominato dalla teoria della modernizzazione (Bottazzi 2009), figlia dello strutturalfunzionalismo (Fabietti 2001, Barnard 2004, Wilk-Cliggett 2007), secondo cui la società tradizionale opera al fine preservarsi e il comportamento individuale è diretto al mantenimento dell’ordine sociale. In questo senso, secondo i teorici della modernizzazione ogni società è destinata a svilupparsi lungo un percorso lineare dall’arretratezza alla modernità, tramite la distruzione delle resistenze provenienti dalla tradizione. Perciò, è necessaria la transizione da una cosiddetta società tradizionale (caratterizzata da ruoli ascritti e multidimensionali entro gruppi particolaristici con proprie norme comunitarie, in cui gli individui resistono alle innovazioni e ricercano, in primo luogo, il riconoscimento del proprio gruppo sociale) a una cosiddetta società moderna (caratterizzata da ruoli acquisiti e dalla divisione del lavoro basata su criteri universalistici, in cui ogni individuo è capace di identificarsi con il cambiamento e di perseguire la propria realizzazione personale); un processo irreversibile lungo una medesima linea da percorrere passando per delle fasi obbligate (Rostow 1960).

 

Il sottosviluppo e le politiche per lo sviluppo del Sud Globale

L’invenzione del concetto di “sottosviluppo” (Escobar 1995) viene attribuita al discorso inaugurale di Harry Truman (1949) come presidente degli Stati Uniti: in esso viene rivolto un appello per la soluzione dei problemi delle aree sottosviluppate del mondo, con l’elaborazione di progetti di sviluppo impieganti tutta la conoscenza tecnica e scientifica disponibile. Le molteplici realtà del Sud globale divengono così chiamate “regioni sottosviluppate”, definendo un’identità omogenea basata sulla presunta aspirazione e necessità del Sud globale ad accelerare la propria crescita economica in contrapposizione netta con il Nord sviluppato. Il dipartimento delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali, nel 1951, costruì un progetto per lo sviluppo dei Paesi sottosviluppati che suggerisce una totale ristrutturazione di queste società. La nascita del concetto di sottosviluppo è, in tal modo, fortemente intrecciata alla nascita delle politiche volte a risolverlo. Il contesto è quello della guerra fredda e della nascita delle istituzioni economiche mondiali; le politiche per lo sviluppo capitalistico dei Paesi poveri – come rivelato esplicitamente dal citato Rostow, il cui libro aveva per sottotitolo “Un Manifesto anti-comunista” – erano un modo per concorrere con il fascino esercitato dall’Unione Sovietica che, entro il socialismo, aveva realizzato la propria industrializzazione.

Joseph Stiglitz (2002) ha distinto due fasi caratterizzanti il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale; dal 1944 al 1980 vi è una fase dominata da un’egemonia keynesiana, in cui il mercato era concepito come instabile ed erano promosse politiche espansive e i prestiti riguardavano esclusivamente la realizzazione di determinati progetti infrastrutturali; dagli anni’80 in poi (sino almeno alla crisi del 2008) fase egemonizzata dal pensiero neoliberale, in cui la BM elabora piani di aggiustamento strutturale in cui i prestiti sono vincolati alla realizzazione di riforme di privatizzazione, deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati. Si tratta del cosiddetto Washington Consensus. Rodrik (2007) ha mostrato come i Paesi che non hanno seguito le suddette politiche neoliberali sono quelli che hanno avuto una performance di crescita economica migliore, rispondendo in modo differente alla globalizzazione con proprie politiche statali. Per quanto fossero già emerse delle perplessità già alla fine degli anni’60 (Rapporto Pearson 1969), il fallimento di tali progetti di sviluppo è praticamente una ovvietà per ogni economista. Fra i più critici, William Easterly (2001), già dirigente della Banca Mondiale, il quale ha dedicato le sue opere più note per mostrare come il fallimento sia stato causato dai disincentivi che la “burocrazia dell’aiuto” produce nei Paesi beneficiari e del conflitto di interessi dei Paesi donatori e l’asimmetria informativa tra beneficiari e pianificatori. Deaton (2013) ha evidenziato i problemi politici degli aiuti bilaterali, laddove viene del tutto trascurato il consenso delle popolazioni povere, le quali non hanno alcun controllo sulle politiche cui sono oggetto, né hanno alcun potere sulla valutazione dei risultati di essi e dunque la capacità di sanzionare i suoi fautori. Inoltre, i governi dei Paesi beneficiari, non essendo in condizioni di parità nei confronti del Paese donatore, si riducono a “ventriloqui” (Van de Walle 2005) di quest’ultimo – “in cui i donatori hanno chiaro quali sono le proprie aspettative politiche e i governi comprendono ciò che devono dire al fine di ottenere l’assistenza esterna” (traduzione mia) – accettando progetti concepiti più per interessi esterni che per i benefici che produrranno nel proprio. Easterly (2014) ha definito l’approccio tecnocratico allo sviluppo economico come una “idea autoritaria”, impregnata del razzismo e del colonialismo dell’epoca in cui è sorta, fondata sulla convinzione che lo sviluppo si possa realizzare tramite un disegno consapevole di autocrati esperti, dotati di buone intenzioni, anziché con il rafforzamento dei diritti politici ed economici dei poveri per trovare la migliore soluzione ai loro problemi entro un processo spontaneo.

Dagli anni’80 e ’90 è giunta la fine dell’ottimismo sullo sviluppo, mentre sono nati approcci alternativi o complementari a quello basato sull’incremento del PIL. Tra i più rilevanti l’indice di sviluppo umano di Mahhub-ul-Haq, basato su PIL pro capite, alfabetizzazione e speranza di vita. Nello stesso filone di pensiero, Amartya Sen (1999) ha elaborato la sua idea di sviluppo come “libertà” con l’approccio delle capabilities, che vede la povertà non solo come un basso livello di reddito ma anche come una privazione di “capacitazioni” fondamentali, intendendo esse come le libertà sostanziali che una società fornisce a i suoi membri perché possano vivere nel modo che ritengono più dignitoso. Tale approccio consente di dare luce alle privazioni interne ai Paesi ricchi e come esse possano essere superiori a quelle di Paesi categorizzati come “in via di sviluppo”: gli afroamericani, dai 35 anni in su, di alcune grandi città americane, scrive Sen riportando uno studio degli anni’90, hanno un tasso di sopravvivenza inferiore a quello dei propri coetanei cinesi o del Kerala in India.

Oggi il dibattito economico sullo sviluppo è focalizzato su un approccio “microfondato”, che non ricerca più grandi politiche universali o grandi cambiamenti politico-istituzionali per la soluzione ai problemi della povertà ma ricerca “soluzioni puntuali” in base ai contesti locali (Banerjee, Duflo 2011) e con il supporto di valutazioni empiriche dell’impatto delle politiche pubbliche, in particolare mediante l’uso dei Random Controlled Trials, simulanti un esperimento analogo a quelli praticati nella medicina.

 

La critica postcoloniale e decoloniale al concetto di sviluppo

Secondo l’antropologo De Sardan (2008) gli studi struttural-funzionalisti si sono fondati su stereotipi, ideologie e rappresentazioni sulle società sottosviluppate, oggi smentite dall’emersione di una realtà molto più complessa: innanzitutto, si è riconosciuta l’esistenza di vari tipi di razionalità, non escludibili; inoltre, si è notato come la tesi culturalista appiattisca l’intera società a un unico sistema di valori, che trascura l’eterogeneità dei gruppi che la compongono, negando alla loro cultura la capacità di trasformarsi e adattarsi. Inoltre, nel tempo (es. sviluppo dell’Asia Orientale) è stata smentita tanto l’idea di un unico percorso obbligato di sviluppo, quanto l’idea di una divisione netta tra “modernità” e “tradizione” e dunque che solo i valori della cosiddetta società occidentale fossero compatibili con lo sviluppo economico.

Il pensiero postcoloniale e decoloniale sullo sviluppo è sorto in questo terreno fertile di disillusione nei confronti di questi progetti nel Sud globale. Inoltre, è indubbia l’influenza subita dalle “eresie” marxiste rappresentate dalla teoria della dipendenza e dalla teoria dei sistemi-mondo. Il più importante apporto di queste teorie è l’aver superato la categorizzazione della “arretratezza” e lo sguardo ripiegato alla struttura socioeconomica interna dei Paesi “sottosviluppati”, affermando come essi fossero tali proprio perché integrati entro il sistema capitalista mondiale fin dall’epoca moderna. Tale sistema economico si fonderebbe proprio su una divisione gerarchizzata dello spazio, tra centri, periferie e semiperiferie (Wallerstein 2004). In Gunder Frank (1967), perciò, lo sviluppo e il sottosviluppo sono due parti dello stesso processo di costruzione del capitalismo globale. Paul Baran (1957), in questo senso, aveva distinto il “non sviluppo” dal “sottosviluppo”: la prima è una condizione originaria, la seconda è il frutto di una relazione con i centri economici sviluppati nel sistema capitalista globale. Samir Amin (1973) aveva cercato di leggere questi Paesi come aventi una particolare forma di capitalismo – periferico, destinato all’estrazione per l’export e condannato alla perenne stagnazione a causa dell’assenza di una domanda interna – piuttosto che come Paesi dove il capitalismo non si era ancora affermato. Tuttavia, anche queste teorie oggi mostrano i propri limiti: la teoria della dipendenza, in particolare, ha peccato di staticità, non riuscendo a prevedere fenomeni contemporanei di “convergenza” quali lo sviluppo economico dell’Est asiatico o del Brasile, avvenuti non in rottura con il capitalismo globale ma entro l’integrazione entro esso; inoltre, l’idea per cui lo sviluppo delle metropoli sia del tutto speculare al sottosviluppo dei Paesi del Sud globale trova ormai poco credito in quanto sappiamo che i benefici complessivi per i Paesi colonizzatori sono stati – da un punto di vista meramente quantitativo – meno rilevanti rispetto ai danni prodotti ai Paesi che hanno subito il colonialismo. Entrambi gli approcci, sono stati criticati dalle correnti marxiste più “ortodosse” per aver privilegiato l’attenzione sulla sfera dello scambio piuttosto che su quella della produzione e dunque a come il modo capitalistico, nell’altro emisfero, necessiti di articolarsi con quelli “precedenti”.

I pensatori postcoloniali e decoloniali hanno, invece, considerato tali teorie come “economiciste”, releganti gli elementi culturali o il razzismo a una importanza secondaria o solo complementare rispetto alla sfera strettamente economica. Per tali correnti di pensiero, infatti, l’ideologia sviluppista è rilevante quanto la divisione internazionale del lavoro. Centrale, in tali elaborazioni, è il pensiero di Michel Foucault ed Edward Said; il primo ha mostrato il legame tra produzione di conoscenza e potere, mediante la definizione/categorizzazione dei dominati all’interno di un discorso che si impone come verità legittima; Said ha applicato l’insegnamento di Foucault alla relazione imperialista tra l’Occidente e l’Oriente, mostrando come l’immagine inventata del secondo – descritto come primitivo e immobile – da parte del primo, sia parte costitutiva dell’identità di quest’ultimo.

I discorsi dello sviluppo sono considerabili come un’eredità dell’imperialismo (McEwan 2009), espressione della visione dell’Occidente dominante e radicati nella cultura coloniale europea che descrive il Nord come avanzato e progressivo e il Sud, in termini di differenza e mancanza rispetto al primo, come arretrato e primitivo. La base di tale categorizzazione è il modo in cui le colonie sono state incorporate nella divisione internazionale del lavoro, che ha dato all’Occidente/Nord – luogo in cui si originano le idee e con il potere di nominare, rappresentare e teorizzare le politiche da applicare nel Sud – il potere di scrivere storie e rappresentare altri popoli e luoghi in connessione con gli interventi in altre parti del mondo in varie forme sino alle politiche per lo sviluppo economico dopo il 1945 e la decolonizzazione.

Tali processi discorsivi non hanno soltanto rappresentato negativamente i colonizzati al fine di legittimare il potere occidentale e il controllo del Sud come una “missione civilizzatrice”, ma anche costruito la subalternità degli stessi, razionalizzando la loro condizione di svantaggio entro l’economia capitalista internazionale. Infatti, la “narrazione dello sviluppo” promuove e giustifica interventi reali che hanno conseguenze reali in particolare nelle politiche pubbliche che plasmano la vita delle comunità nelle regioni sottosviluppate (Charusheela, Zein-Elabdin 2004). Presumendo la precedenza ontologica delle moderne società europee come base per la sua teoria della storia, i modi di vita non occidentali diventano erronei. Il potere della scienza economica risiede nella sua capacità di autorizzare forme istituzionali di potere, forzando le politiche di tutto il mondo con le proprie prescrizioni, specialmente nelle regioni sottosviluppate. Lo sviluppo, in questa visione, è un progetto orientalista che categorizza i suoi partecipanti, produce soggettività – riconoscimento di sé come sviluppati o sottosviluppati – e li esorta a seguire il percorso dei paesi industrializzati.

Homi Bhabha (1994) ha definito il “discorso coloniale” come un apparato di potere il cui obiettivo è quello di descrivere la popolazione colonizzata come un tipo degenerato a causa della razza, al fine di perseguire la conquista e stabilire dei sistemi di amministrazione e istruzione per governare la comunità subalterna. Dipesh Chakrabarty (2000) ha definito lo sviluppo come uno dei temi principali della “narrazione della transizione” con cui vengono descritte le storie del Terzo Mondo. Walter Mignolo (2011) lo considera un elemento della matrice coloniale del potere: lo sviluppo sarebbe la nuova retorica della salvezza e della civiltà occidentale, un sostituto di ciò che fu il “progresso” nella missione civilizzatrice del colonizzatore del XIX secolo: una missione capitalista il cui unico orizzonte è l’accumulazione, non la distribuzione; la crescita e non l’ampiezza dei suoi beneficiari. I suoi costi – il “lato oscuro” – sono ben occultati dalla retorica della “modernità” che in contrapposizione inventa la “tradizione”; la colonialità è la connessione logica nascosta fra questi due poli.

Arturo Escobar (1995), come abbiamo visto, ha mostrato come il discorso dello sviluppo sia stato prodotto storicamente, partendo da come molti Paesi hanno iniziato a vedere sé stessi come “sottosviluppati” e come ciò sia diventato, per loro, un problema fondamentale da risolvere. L’ascesa dello Sviluppo è funzionale alla preservazione delle relazioni di potere nel mondo postcoloniale. In nome del progresso economico i Paesi occidentali hanno proposto una radicale ristrutturazione delle società sottosviluppate, generando interventi per superare il sottosviluppo economico che hanno infine generato effetti opposti a quelli dichiarati. Tuttavia, tale discorso sarebbe servito a creare un regime governamentale per le popolazioni di queste aree, soggette a un apparato tecnocratico ed etnocentrico che sistema le forme di conoscenza e le tecniche di potere su di loro. Lo Sviluppo impone a questi popoli di riformarsi, modernizzarsi, creando una distanza incolmabile tra loro e i propri riformatori, riproducendo continuamente la differenza del Terzo Mondo inferiore nei confronti del superiore modello europeo. James Ferguson (1996), dello stesso filone di pensiero di Escobar, in un lavoro pluricitato e ormai un classico dell’antropologia economica ha applicato questa teoria al caso concreto del Lesotho, descrivendo la “industria dello sviluppo” – i cui progetti sono costantemente fallimentari – come una anti-politics machine, costituita da sistemi concettuali e discorsivi, istituzioni e processi sociali, in cui l’obiettivo dichiarato di eliminare la povertà è, nei fatti, del tutto marginale rispetto al rafforzamento e all’espansione del potere burocratico statale; attraverso la costruzione del Lesotho come Paese sottosviluppato, descrivendo la sua società come “aborigena” e contadina e la concezione del problema della povertà come una mera questione tecnica, si giunge alla depoliticizzazione della stessa, rimuovendo la questione dell’assenza di potere di comunità escluse da ogni altra soluzione al di fuori dalla guida paternalistica di uno Stato astratto dal conflitto sociale come se fosse un ente “neutrale”. In Hann e Hart (2011) l’industria dello sviluppo viene vista come il teatro della lotta di classe fra la burocrazia e le popolazioni oggetto degli interventi.

Come ci spiega McEwan, alla modernizzazione e al razzismo coloniale esplicito hanno fatto seguito un colonialismo umanitario (il Terzo Mondo è incapace di prendersi cura di sé, bisognoso di aiuto, permanentemente in crisi, privo di diritti umani e in balia di caos e corruzione) e teorie culturaliste. Secondo la rete di economiste Diversify and Decolonize Economics (Ingrid Knavgraven; Carolina Alves; Surbhi Kesar) la persistenza di tali elementi coloniali si deve alle molteplici rimozioni su cui si fonda la scienza economica dominante, fra cui vi sarebbe una rappresentazione dello sviluppo capitalistico che occulta il ruolo svolto dal colonialismo, in particolare dalla tratta degli schiavi, in nome di leggi economiche uniformemente funzionanti al di là dei differenti contesti e facenti perno sull’interesse individuale perseguito entro un quadro di libero mercato. Leggi universali che, in realtà, nasconderebbero l’eurocentrismo in un ideale modernizzatore cui tutti i popoli devono tendere per costruire delle istituzioni ispirate all’Occidente liberalcapitalista. Ciò pone in ombra il pensiero economico situato nel Sud Globale, oltre che l’esistenza di differenti punti di vista entro la stessa disciplina.

 

La Sardegna e lo sviluppo economico: arretratezza o subalternità?

La costruzione dell’identità dei sardi come popolo intrinsecamente sottosviluppato e della questione sarda intesa come problema meramente tecnico risolvibile con determinate politiche salvifiche esogene ha una storia che potremmo far partire dal riformismo sabaudo della metà del XVIII e dall’applicazione delle teorie fisiocratiche per lo sviluppo dell’agricoltura con il consolidamento della proprietà privata della terra contro il comunitarismo delle terre. Un altro importante antecedente fu la legislazione speciale del 1907, il cui principale fautore – il ministro dell’agricoltura Francesco Cocco Ortu – sminuì le responsabilità degli enormi espropri per debiti,, ribadendo come il vero problema fosse la frammentazione eccessiva della proprietà,causata dall’individualismo dei sardi che avrebbe impedito l’applicazione di migliori colture agrarie. La riduzione della questione sarda a mero problema tecnico-agrario, la cui soluzione starebbe in provvedimenti a garanzia di un uso razionale della proprietà e dei mezzi necessari per migliorare la condizione agricola, poneva al riparo dalle critiche l’assetto centralista dello Stato e l’orientamento economico protezionista, principale oggetto delle critiche dei pensatori “sardisti” e federalisti dell’epoca. Rimando a quanto già scritto (Pili 2021).

Nella sua fase contemporanea, in rapporto al concetto di sviluppo propriamente detto come esposto in questo articolo, in Sardegna esso si è prodotto con gli effetti della teoria della modernizzazione in Sardegna: l’ideologia della Rinascita. Come i Paesi del Sud Globale, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Sardegna fu categorizzata come “sottosviluppata” e divenne territorio oggetto di un progetto di industrializzazione esogena, promossi dai tre attori principali della modernizzazione passiva sarda: lo Stato, il capitale esterno, la classe politica isolana. Il primo volume del Rapporto Conclusivo sugli Studi per il Piano di Rinascita (1959) dedicò una parte della relazione agli elementi della società sarda ostacolanti o meno lo sviluppo economico. Vi è l’influenza dello strutturalfunzionalismo nelle “linee generali di una politica di trasformazione socio-culturale” (pp.124-125): occorrerebbe un intervento su determinati aspetti socioculturali, per trasformarli, conformandoli a quelli di una società sviluppata. Tra questi: ridotto spirito imprenditoriale; ridotto grado di associazione; resistenza all’introduzione di innovazione tecnologica; scarsa preparazione tecnica. L’obiettivo è raggiungere una maggiore mobilità sociale, trasformare l’atteggiamento verso lo Stato e la società “nazionale” affinché la Sardegna possa inserirsi nella “realtà economico-sociale” italiana; trasformare la forma di associazione “dalle forme tradizionali ed emotive” (famiglia, clientela) alle “forme più moderne e razionali” (cooperativa, sindacato); migliorare e modernizzare la “cultura generale di base”. I “fattori sfavorevoli allo sviluppo industriale” (pp.173-176) sono individuati in: geografia (insularità/distanza dai mercati; struttura orografica-idrografica, mancanza di serbatoi idrici e acque fluenti perenni); clima (secco, arido, scarse precipitazioni); cultura (“carattere ambientale”). Se alle cause naturali suddette si è posto rimedio e oggi incidono meno che nel passato, attualmente le cause di ostacolo allo sviluppo industriale sarebbero innanzitutto culturali, connesse alle “caratteristiche stesse della Sardegna” che “hanno prodotto, attraverso i secoli, un tipo umano della mentalità severa, cauta, riservata rigidamente scrupolosa. Estimatore della tradizione, prudente nei riguardi delle innovazioni, il sardo, in genere, è poco proclive (…) a tutto ciò che (…) è connaturato alla condotta dei grandi affari”. A differenza del grande uomo d’affari, infatti, il sardo è avverso al rischio e non collaborativo. “Con una mentalità così diversa non deve stupire se il sardo è più propenso agli investimenti immobiliari che agli investimenti industriali (…) gli studi umanistici e giuridici a quelli economici, tecnici e commerciali, il lavoro dei campi e la guardia dei greggi al lavoro nell’officina”. Da ciò deriverebbero tutti i problemi pratici che impediscono lo sviluppo industriale: scarso capitale, scarse iniziative economiche, limitata istruzione tecnica, commerciale, professionale. I “fattori favorevoli allo sviluppo industriale” (pp.176-178) invece sarebbero tutte “conseguenti alla politica di sviluppo delle zone depresse del Mezzogiorno che lo Stato persegue da oltre due lustri ed all’azione degli organi amministrativi della Regione”. I fattori sfavorevoli sono legati alle caratteristiche interne della Sardegna, specie alla cultura della società sarda mentre i fattori favorevoli sono connessi all’interventismo statale e regionale.

Altro esempio noto di traduzione pratica dell’ideologia dello sviluppo in Sardegna e del suo legame con i rapporti di potere è la relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna (1972) che ha dato un importante contributo alla legittimazione della creazione di un polo industriale nella Sardegna centrale. Il Senatore Giuseppe Medici, nel suo intervento mostrò un’idea di Sardegna storicamente immobile e della pastorizia come l’ambiente culturale generatore del banditismo: “le sue popolazioni restano legate a un antico retaggio, ed hanno un culto profondo della tradizione (…) qui, più che in ogni altra Regione d’Italia, vive la storia” (p.16); “elementi psicologici congeniali con la gioventù rurale barbaricina” che vengono esasperati dal pastoralismo” (p.28). Perciò è diventato necessario trasformare il pastore nomade in stanziale; la pastorizia in Sardegna è “naturale”, imposta dall’ambiente fisico ed economico sociale, dunque necessario intervenire per la sua trasformazione (pp.57-60). La zona industriale di Ottana sarebbe un aiuto esterno all’evoluzione della società chiusa barbaricina (p.71), sebbene sarebbe necessario soffermarsi di più sullo sviluppo agricolo, a differenza del primo piano di rinascita (p.80). La trasformazione socioeconomica dell’isola permetterebbe di superare arretratezza e criminalità (p.82); tuttavia, occorreva prevedere la reazione della Barbagia (a causa delle sue tradizioni, consuetudini e credenze) allo sviluppo industriale (p.85).

Il punto debole di queste teorie, anche in Sardegna, è appunto la mancanza di un elemento dinamico, malgrado dal 1600 ad oggi le campagne sarde abbiano sperimentato un’accumulazione privata della ricchezza e quindi una diversificazione sociale. A partire dagli anni’80, gli scienziati sociali sardi hanno iniziato a decostruire le fondamenta della tesi culturalista del sottosviluppo sardo su richiamata: il sociologo Benedetto Meloni (1984) ha ridimensionato il concetto di “famiglia esclusiva”, mostrando l’importanza dell’associazione tra famiglie, espressa tramite varie forme di cooperazione per la tosatura del gregge, scambi di lavoro con i contadini, il recupero del bestiame perso. Lo storico Gian Giacomo Ortu (2017) ha fatto notare come il pastore tradizionale non fosse affatto isolato od ostile all’innovazione ma, al contrario, grazie alla transumanza fosse possibile far circolare idee ed effettuare scambi, contro il luogo comune dell’isolamento del pastore.

Le differenze di sviluppo tra Paesi conseguenza di una molteplicità di cause fra loro interagenti lungo processi almeno secolari se non addirittura millenari; in particolare, per la nostra isola, di tipo istituzionale e demografico. Questo dato oggettivo anziché gettarci nello sconforto, dovrebbe permetterci di guardare con occhio critico al concetto di sviluppo e alle politiche per il suo raggiungimento e permetterci di gettare una maggiore luce su quanto sia più vicino alla portata delle nostre azioni, affinché la nostra situazione economica possa essere migliorata: i rapporti di potere asimmetrici entro cui i sardi sono inseriti rispetto ai centri del potere politico ed economico mondiale, rispetto allo Stato come al capitale italiano e transnazionale. Inoltre, non solo la questione del “merito” ma anche le politiche circoscritte al breve termine e ai tempi ordinari della piccola politica perdono molto di rilevanza. In particolare, ad esempio, le idee salvifiche del momento: zona franca integrale (proposta dalla Destra) e l’insularità in Costituzione (la cui funzione è analoga a quella della ideologia della Rinascita, ovvero come ideologia della classe politica autonomistica trasversale). Ma questo vale anche per le cosiddette politiche di sviluppo dal basso, le quali non sono parse in grado di rompere con i meccanismi del passato a causa dell’inefficienza della pubblica amministrazione e della mancanza di integrazione fra l’imprenditoria sarda e quella esterna. (Sassu 2017).

In ogni caso non vengono mai chiamati in causa i rapporti di potere tanto all’interno quanto all’esterno. Questi si fondano sul divario di sviluppo economico ma non ne sono la sua origine, essendo tale divario pre-esistente, esattamente come quello tra paesi colonizzatori e colonizzati. Tuttavia, essi pongono le condizioni attraverso cui tale situazione non possa essere superata in quanto la sua esistenza perpetua gli stessi e rende possibile lo sfruttamento del nostro territorio per i profitti esterni. Inoltre, per quanto tutti i sardi siano dei subalterni, ciò non significa che il peso di tale subalternità sia ugualmente distribuito: la classe dirigente sarda, nella sua funzione di mediatrice, garantisce il mantenimento di tale relazione asimmetrica, traendone vantaggio in termini di rendite.

La Sardegna non è mai stata isolata ed estranea alla modernità o al capitalismo globale. Non arretratezza rispetto a un centro sviluppato e moderno cui tendere o uniformarsi per “modernizzarci” si deve parlare ma di appartenenza, in una posizione subalterna, entro una rete di relazioni globali, europee e statali, verso lo stesso centro. Si tratta di comprendere che il principale problema della Sardegna non è l’arretratezza ma la subalternità; occorre non più soffermarsi sulle presunte realizzazioni della modernità contro la tradizione sarda ma sull’esclusione prodotta dalle politiche per lo sviluppo (Mongili 2015) e sul ruolo che tale ideologia ha ricoperto per la giustificazione del potere delle nostre élite. La questione sarda, che altro non è che un intreccio di molteplici subalternità: una subalternità economica, nei confronti del capitale esterno; una subalternità politica nei confronti dello Stato centrale; una subalternità culturale, che emerge evidente nello stigma che colpisce i parlanti la lingua sarda, rispetto a una italianità percepita come moderna, europea, progressiva, davanti alla quale la propria diventa espressione di arretratezza e isolamento oppure qualcosa da «valorizzare» economicamente e svilire a fini turistici, sempre entro un’idea orientalista di Sardegna. La subalternità culturale impedisce il raggiungimento di una consapevolezza politica volta a un processo di emancipazione; inoltre, favorisce la permanenza di un’identità sarda forgiata nella relazione asimmetrica con i poteri esterni e mantenuta anche dalle narrazioni nazionali interne, negando ai sardi la possibilità di esprimersi liberamente, portandoli a pensarsi in maniera stereotipata.

Il problema fondamentale, quindi, dovrebbe essere quello di rafforzare il potere politico dei sardi, l’auto-organizzazione dei movimenti antagonistici, la capacità di leggere e intervenire nel conflitto sociale interno, di incidere democraticamente sui processi economici che li coinvolgono, anziché essere dominati da centri di interesse esterno; realizzare reti con popolazioni dalla stessa condizione nell’Europa Meridionale, oltre i propri Stati di appartenenza.

 

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Andrìa Pili

Andrìa Pili

(Cagliari 1990). Laureato in Economia e Finanza con una tesi sul rapporto tra istituzioni e sottosviluppo economico nella storia economica sarda. Già attivista politico-culturale nella gioventù indipendentista sarda e nel comitato studentesco contro le basi militari, autore di articoli e saggi di analisi e divulgazione storica, politica ed economica.