CHI SONO I SUBALTERNI E LE SUBALTERNE?

di Cristian Perra

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Sebbene il tema venga trattato, in nuce, negli scritti dedicati alla questione meridionale, nei quale i territori meridionali dello stato italiano (e in particolare al suo interno, i contadini del sud,  i quali per Gramsci avrebbero dovuto creare, assieme agli operai del Nord un blocco storico in grado di compiere il passaggio rivoluzionario) vengono definiti come una «grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro»[1], incapaci di «dare un’espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni»[2], è nei Quaderni che il concetto verrà trattato in maniera approfondita.

I gruppi subalterni vengono raffigurati come frammentati e accomunati da una «tendenza all’unificazione»[3] sempre rotta dall’iniziativa dominante. Tuttavia, Gramsci, mettendo in evidenza l’esistenza di tracce di iniziativa autonoma di queste compagini, suggerisce la possibilità del loro agire politico e la loro potenziale rilevanza storica.

Come scrive Marcus E. Green, Gramsci

si accosta allo studio dei subalterni in questo modo, cercando di vedere il subalterno come categoria storicamente determinata, esistente entro particolari contesti storici, economici, politici, sociali e culturali. Cerca di comprendere la formazione, lo sviluppo e la linea evolutiva dei subalterni; come hanno avuto origine, come alcuni sono sopravvissuti ai margini e come altri sono riusciti a passare da una condizione sociale subordinata ad una dominante. In breve, desidera capire come le condizioni e le relazioni del passato influenzino lo sviluppo presente e futuro dell’esperienza vissuta da questi gruppi.[4]

I subalterni, quindi, sono l’agente di raccordo tra la realtà della storia e la sua negazione: la loro esistenza, infatti, è reale e insieme mancante di una autonoma volontà politica, atta a valorizzare la loro disgregazione. In tal senso nei gruppi subalterni si fa presente e si offre all’osservazione lo storicamente negativo. Un negativo che ha la figura concreta di un determinato gruppo umano con caratteristiche precise e che non è quindi la pura e astratta possibilità irrealizzata. Tale negativo non è deducibile; esso è solamente constatabile come residuo, come scarto dalla totalità ordinata e la sua esistenza non è mai recuperabile in una compiuta sintesi dialettica che lo renda momento negativo necessario per l’apparizione sempre egemone del positivo.

Perciò le valutazioni e i giudizi inclusi in tutte le analisi storiche di Gramsci non avvengono proiettando sul passato un disegno ideale, quanto prendendo coscienza attraverso la filologia vivente dell’esistenza delle classi subalterne, ossia penetrando con più forza nella storia per cogliervi le tracce appena visibili di coloro che da questa son stati esclusi. Essi sono un minimo di storia che tuttavia si ripropone come il sempre emergente in ogni istante del tempo, il non-identico che si ripresenta come dimensione residuale della sintesi dialettica.

La spontaneità appare dunque come una caratteristica di tutta la storia delle classi subalterne, come l’espressione di coloro che sono stati relegati alla marginalità e alla periferia. Tuttavia, all’interno di questa spontaneità esistono degli elementi di direzione consapevole. Il problema è che sono diversi, e non sorpassano il livello del senso comune, ossia della loro particolare concezione del mondo, della loro ideologia. Una concezione composta da linguaggi particolari e da un complesso sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama folklore, l’ideologia di coloro i quali non hanno una direzione politica consapevole.

Le distinzioni, separazioni, stratificazioni, e opposizioni sociali tra gruppi sociali dotati di diversi gradi di potere trovano un generale riscontro in certe distinzioni, separazioni, stratificazioni e opposizioni culturali.

Il folklore è quindi una concezione del mondo non semplicemente divergente, ma in piena contrapposizione con quella egemonica, propria di chi detiene i mezzi di produzione, di riproduzione conservando il dominio attraverso il sistema della cultura. Le concezioni del mondo “ufficiali” sono quindi al tempo stesso in concorrenza e in contraddittorio con altre concezioni esplicite ed implicite, tra le quali una delle maggiori è proprio il folklore.

Il Quaderno 25, infatti, pone delle direttive di metodo per quanto riguarda lo studio dei gruppi subalterni indicando sei passaggi di questo processo. Come osserva Green, «questi sei stadi non rappresentano solo la metodologia dello storico subalterno o integrale, ma anche i livelli mediante i quali un gruppo subalterno evolve da una condizione “primitiva” di subordinazione ad una condizione di autonomia»[5].

Riportiamo per completezza il passo gramsciano:

Bisogna pertanto studiare: 1) il formarsi obbiettivo dei gruppi sociali subalterni, per lo sviluppo e i rivolgimenti che si verificano nel mondo della produzione economica, la loro diffusione quantitativa e la loro origine da gruppi sociali preesistenti, di cui conservano per un certo tempo la mentalità, l’ideologia e i fini; 2) il loro aderire attivamente o passivamente alle formazioni politiche dominanti, i tentativi di influire sui programmi di queste formazioni per imporre rivendicazioni proprie e le conseguenze che tali tentativi hanno nel determinare processi di decomposizione e di rinnovamento o di neoformazione; 3) la nascita di partiti nuovi dei gruppi dominanti per mantenere il consenso e il controllo dei gruppi subalterni; 4) le formazioni proprie dei gruppi subalterni per rivendicazioni di carattere ristretto e parziale; 5) le nuove formazioni che affermano l’autonomia dei gruppi subalterni ma nei vecchi quadri; 6) le formazioni che affermano l’autonomia integrale ecc. La lista di queste fasi può essere ancora precisata con fasi intermedie o con combinazioni di più fasi. Lo storico deve notare e giustificare la linea di sviluppo verso l’autonomia integrale, dalle fasi più primitive, deve notare ogni manifestazione del sorelliano «spirito di scissione[6]»

Gramsci mostra efficacemente come sia il sorelliano spirito di scissione, da maturare in seno al gruppo subalterno a doversi attivare se si vuole avere qualche possibilità per fronteggiare l’iniziativa, e più complessivamente l’egemonia, dei gruppi dominanti.

Il pensatore sardo vuole rivendicare all’interno del processo dialettico il valore teoretico più profondo del concetto di scissione rispetto a quello di distinzione, tenendo comunque, come riferimento Croce e la dialettica dei distinti, culturalmente egemone in Italia anche durante il fascismo. Croce secondo Gramsci sbaglia credendo di poter togliere alla dialettica il carattere di separazione-scissione, di fatto pacificandola.

È pure certo che nella storia si presentano anche momenti e fasi in cui le forze opposte coesistono, ma ciò non può portare a compiere l’errore prospettico che fa scambiare una momentanea evenienza di una fase in transizione con la legge profonda del divenire storico. In sostanza, Croce non ha dato una nuova legge del divenire storico, ma ha fornito più semplicemente il modello ideale di un momentaneo equilibrio, della incapacità di una parte di prevalere in modo definitivo sull’altra.

La storia si conferma, dunque, come il terreno di autoriconoscimento del soggetto, di progressiva scoperta della propria autonomia. Di conseguenza per Gramsci, il quale non perde mai di vista l’obiettivo politico dell’analisi filosofica di tracciare una storia integrale dei gruppi subalterni. Si tratta di una condizione essenziale se si vuole essere in grado non soltanto di capire le proprie possibilità, ma anche di capire la direzione dello sviluppo storico forzando la situazione al momento giusto per attuare il processo rivoluzionario.

Certamente Gramsci, nei Quaderni del carcere, come abbiamo già sostenuto, identifica i subalterni partendo da un’analisi storica dei rapporti di potere. Questo modo di procedere ci rivela come tale categoria non sia tanto definitoria quanto, piuttosto, relazionale, in una parola, dialettica: ciò significa che il subalterno viene individuato dalla relazione che intrattiene con le formazioni egemoniche e non dal fatto di possedere determinate caratteristiche ontologiche.

Da questa definizione si evince che per Gramsci il subalterno è caratterizzato da una resistenza attiva al potere egemonico e al suo discorso: i gruppi a cui abbiamo fatto riferimento non hanno mai un atteggiamento totalmente passivo, ma al contrario sono capaci, in determinati momenti e condizioni, di reale azione politica volta all’acquisizione di maggior potere.

Questo nuovo modo di considerare la storia che porta ad esaminare il folklore e le popolazioni subalterne non come residuo del passato ma come società sincronicamente altra rispetto a quella dominante, ci costringe a ripensare il processo di emancipazione delle classi sociali subalterne, poiché, da residuo, divengono portatrici di senso e oggetto di una temporalità plurale parallela a quella ufficiale.
Da questo punto di vista è fondamentale considerare l’esperienza dell’History from below prodotta dal collettivo indiano dei Subaltern studies e in particolare l’itinerario teorico di Ranajit Guha. L’obiettivo del collettivo che si riuniva sotto la omonima rivista, porta senz’altro avanti il proposito gramsciano del Quaderno 25 di ricercare «ogni traccia di iniziativa autonoma dei gruppi subalterni».

Rispetto a Gramsci, tuttavia, i membri del collettivo interpretano la politica dei gruppi subalterni come un dominio autonomo da quello per la lotta per l’egemonia. Per Gramsci, infatti, i subalterni avevano l’obiettivo di costituire un blocco storico e politico in grado di prendere possesso della lotta per l’egemonia e, di fatto, di prendere il potere politico. 

Per riassumere, la vaexata questio sul rapporto tra Gramsci e gli studiosi dei Subaltern Studies ci rifaremo alle parole di Miguel Mellino, il quale scrive che

 diversamente dalla prospettiva di Gramsci, ciò che ci sembrano dire gli storici indiani è che per recuperare la soggettività dei subalterni, i contadini devono restare (o devono essere riportati) ai margini della Storia (dello storicismo): le insurrezioni contadine non possono essere comprese nella loro specificità politica, culturale, soggettiva dall’interno di nessuna delle grandi narrazioni moderne (coloniale, nazionalista, marxista) poiché queste rappresentano gli strumenti di un sapere estraneo al loro mondo socioculturale. È così che il termine subalterno si trasforma in un significante: esso sembra non portare il peso di nessuna grande narrazione alle sue spalle. I subalterni sono colori ai margini della Storia: soggetti immersi nello spazio autonomo (che non vuol dire affatto arcaico o tradizionale) della propria storicità.[7]

Sin da queste prime ricerche, infatti, Guha (come il resto del collettivo) si propone di fare luce non soltanto sulla violenza materiale, costitutiva del colonialismo moderno, ma ugualmente sul suo correlato epistemico. Ciò che gli preme lacerare è il nodo concettuale che la storiografia coloniale – seguita da quella nazionalista e da una parte di quella marxista –, stringe sull’intera esperienza coloniale, rintracciando le tracce di dominio e violenza, ma anche di resistenze e insubordinazione, che sono state escluse da una storia «scritta da un punto di vista colonialista ed elitario» che non tiene conto del fatto che «una parte consistente della storia indiana è stata fatta dalle classi subalterne[8]».

I saggi presenti nei volumi della rivista Subaltern Studies, infatti, recuperano il concetto di subalternità con una duplice connotazione: politica e intellettuale. Per il collettivo, infatti, riscrivere la storia indiana è un’azione che implica entrambe le prerogative, presentandosi in qualche modo come «una prosecuzione con altri mezzi della lotta tra le masse indiane e il Raj britannico»[9]; un lavoro oppositivo, che rappresenta uno sforzo genealogico per togliere il controllo sul passato indiano «ai suoi attuali scribi e curatori»[10], dal momento che molto di quel passato continua a condizionare il presente. Un compito non facile, dato che la storia delle classi subalterne, come nei Quaderni di Gramsci, è tutta da ricostruire, considerato pure il difficile reperimento delle fonti o il loro utilizzo ideologico da parte dell’élite indiana e dei colonizzatori britannici, esattamente come fatto da Gramsci.

Qui l’attributo di subalterno sta ad indicare la generale subordinazione nelle società dell’Asia meridionale, sia quest’ultima espressa in termini di classe, casta, età, genere, professione o in qualsiasi altro termine. Poco sotto cita come riferimento i sei punti dei Criteri metodologici del Quaderno 25 e il nodo centrale nell’analisi gramsciana costituito dal rapporto tra subordinazione, autonomia e azione politica, specificando che, a suo avviso, la «subordinazione non può essere compresa se non come uno dei termini costitutivi, assieme al dominio, di una relazione binaria secondo la quale “i gruppi subalterni sono sempre soggetti all’attività dei gruppi dominanti, anche se essi si ribellano e insorgono”[11]».

Ciò che viene messo in luce dalle memorie collettive, le quali vengono valorizzate e riprese, forse per la prima volta, è la loro immanente ambivalenza costitutiva: da una parte, le soggettività subalterne vengono inscritte all’interno di una metanarrazione europea nella quale appaiono come tristi riproduzioni del soggetto moderno della storia europea esaltante lo Stato-nazione e le sue istituzioni; dall’altro lato, i passati subalterni sono la traccia di pratiche che spezzano la collusione tra la storia e la narrazione moderna della cittadinanza, del pubblico e del privato borghesi e dello Stato-nazione sul quale il discorso storico accademico si è basato mostrando, ancora una volta, uno schema di temporalità plurali.

Gramsci rappresenta, quindi, in questo contesto una vera e propria eccezione rispetto alla gran parte degli altri intellettuali occidentali: il rapporto che si instaura tra il suo pensiero e la sua appropriazione da parte di contesti diversi non si configura mai nei termini della dipendenza, dell’emulazione o del rifiuto, ma in quelli dell’appropriazione, della traducibilità delle esperienze.

Gramsci, infatti, nel momento in cui individua il “popolo” come «l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita»[12] o quando circoscrive la spontaneità come caratteristica della storia delle classi subalterne, «e anzi degli elementi più marginali e periferici di queste classi»[13], lascia intendere la presenza di uno spazio di azione politica all’esterno della logica binaria e strumentale della dialettica coloniale.

Non si tratta, quindi, solo di indagare storiograficamente l’emergere delle eccedenze nella storia dei gruppi subalterni, come ad esempio gli episodi di banditismo sociale e brigantaggio nei territori meridionali dello stato italiano che il già citato Hobsbawm definirà qualche decennio più tardi, riprendendo esplicitamente Gramsci e facendo successivamente i conti con la critica serrata di Guha, come movimenti pre-politici, ma di un tentativo di analisi che poneva al centro dell’attenzione quel complesso rapporto tra le categorie di “rivolta” e “rivoluzione” che Gramsci intuiva come fondamentale per i gruppi subalterni. Lo storico inglese, infatti, mostra i ribelli subalterni come

individui “prepolitici”, che ancora non hanno trovato (o soltanto cominciato a trovare) un preciso linguaggio, con il quale esprimere le proprie aspirazioni […] [Il capitalismo] si impone loro dall’esterno, per l’azione insidiosa di forze economiche che essi non comprendono[14].

Tuttavia, la coscienza ribelle era, prima di tutto, una coscienza negativa, nel senso che l’identità si esprimeva solamente attraverso un’opposizione che consacrava allo stesso tempo la differenza e l’antagonismo rispetto ai dominatori. Era un’identità i cui limiti erano marcati dalle stesse condizioni di subordinazione sotto le quali i contadini vivevano e lavoravano; solo che le relazioni si trovavano invertite.

Come aggiunge Guha

quando si ribellava il contadino sapeva quello che faceva. Il fatto che l’azione fosse diretta principalmente a distruggere l’autorità dell’élite sovraordinata e non proponesse complessi programmi per rimpiazzarla, non la pone al di fuori dell’ambito politico. Tutt’altro: l’insurrezione affermava il suo carattere politico proprio in virtù del suo procedere per negazione e inversione. Nel suo tentativo di invertire la posizione del dominante e del dominato nella struttura del potere, non lasciava il minimo dubbio circa la sua identità di progetto di potere[15].

Il termine subalterno indica l’intuizione di un magma sociale che si muove all’esterno della indiscussa centralità operaia, ma con la quale il proletariato industriale, la punta di diamante del processo rivoluzionario, deve pur sempre fare i conti.

Note:

 

[1] Antonio Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in La costruzione del partito comunista. 1923-1926, Torino, Einaudi, 1971.

[2] Ibid.

[3] Riportiamo per dovere di completezza le parole del filosofo di Ghilarza, il quale, nel Quaderno 3, nota come la storia dei gruppi subalterni sia «necessariamente disgregata ed episodica: c’è nell’attività di queste classi una tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma essa è la parte più appariscente e che si dimostra solo a vittoria ottenuta. Le classi subalterne subiscono l’iniziativa della classe dominante, anche quando si ribellano; sono in istato di difesa allarmata. Ogni traccia di iniziativa autonoma è perciò di inestimabile valore. In ogni modo la monografia è la forma più adatta di questa storia, che domanda un cumulo molto grande di materiali parziali. Certamente, più per motivi di organizzazione politica che di natura teoretica, il nostro filosofo auspicava una ricomposizione organica delle classi subalterne attraverso il ruolo degli intellettuali, della loro connessione sentimentale con le compagini subalterne e del partito, quale moderno principe in grado di attuare la sintesi dialettica tra queste istanze disgregate. [Quaderni del carcere, cit., pp. 299-300].

[4] Marcus E. Green, Gramsci non può parlare: presentazioni e interpretazioni del concetto gramsciano di subalterno, in Mauro Pala (a cura di), Americanismi. Sulla ricezione del pensiero di Gramsci negli Stati uniti, Centro studi filologici sardi, Cagliari, 2009, p. 82.

[5] Gramsci non può parlare: presentazioni e interpretazioni del concetto gramsciano di subalterno, cit., p. 83.

[6] Quaderni del carcere, cit., p. 2288.

[7] Miguel Mellino, Gramsci a pezzi o la decostruzione postcoloniale di Gramsci, in Quaderni di teoria sociale, 13, 3, 2013.

[8] Edward Said, Introduzione, in Ranajit Guha, Gayatri Chakravorty Spivak (a cura di), Subaltern studies. Modernità e post-colonialismo, Ombre Corte, Verona, 2002, p. 19.

[9] Ivi, p. 22.

[10] Ibid.

[11] Ivi, p. 30. La citazione di Gramsci è in Quaderni del carcere, cit., pp. 2283-2284.

[12] Quaderni del carcere, p. 2312.

[13] Ivi, p. 328.

[14] Eric J. Hobsbawm, Primitive Rebels: Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th and 20th centuries, Manchester University Press, Manchester, 1959, trad. it. I ribelli: forme primitive di rivolta sociale, a cura di Betty Foà. Einaudi, Torino, 1966, p. 5.

[15] Ranajit Guha, Aspetti elementari dell’insurrezione contadina, in G. Vacca, P. Capuzzo, G. Schirru (a cura di), Studi Gramsciani nel mondo. Gli studi culturali, Bologna: Il Mulino, 2008., cit., p. 94.

Cristian Perra

Cristian Perra

Cristian Perra è ricercatore indipendente. Laureato presso l’Università degli studi di Sassari all’interno del corso di laurea magistrale in Scienze storiche e filosofiche con una tesi dal titolo “Stare sulla linea abissale. Appunti per una critica della ragione coloniale” che discuterà nell’ottobre 2022. È Militante e attivista politico nel campo delle lotte contro l’occupazione militare della Sardegna. I suoi interessi di ricerca vertono sugli studi postcoloniali, sull’opzione decoloniale, sulla Teoria critica della società, in particolare l’esperienza filosofica di Theodor W. Adorno, e sulla storia critica delle idee. È membro del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, incentrato sull’applicazione al contesto sardo delle teorie e delle pratiche decoloniali e responsabile editoriale del sito omonimo.