OVER-TOURISM, PARADISI PERDUTI PER UN PUGNO DI LIKE

di Valentina Veronica Peana

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«Vuoi sapere dove si trova questo posto segreto da favola? Lascia un like al post, commenta taggando più amici e condividi nelle tue storie, e ti invierò la posizione esatta!»

Questa è la formula utilizzata negli ultimi tempi da content creator e travel influencer a caccia di followers.
Persone, cioè, che per guadagnare forniscono itinerari, consigli, e idee per viaggiare.

La competizione è alta, resa da un infuriare programmato di condivisioni, immagini patinate (e spesso affatto veritiere) e musichette accattivanti per indurre l’utenza a seguire il profilo ed interagirci il più possibile.
La promozione territoriale ai tempi dei social, dicono alcuni, professando un semplice interesse a “far conoscere il proprio territorio, che è di tutti” sottolineano quasi offesi.

Di tutti, appunto.
A partire da chi l’ha sempre vissuto con riserbo e attenzione e certo non vuole vederlo distrutto, né mercificato, né vietato l’ingresso se non dietro lauti pagamenti per accedervi, ma partiamo dall’inizio.

L’ultra-turismo ai tempi dei “mi piace”

Alcune precisazioni e nozioni di base: con over tourism si intende “l’impatto negativo che il turismo, all’interno di una destinazione o in parte di essa, ha sulla qualità di vita percepita dei residenti e/o sull’esperienza del visitatore” (World Tourism Organization), eccedendo “la soglia della capacità fisica, ecologica, sociale, economica, psicologica e/o politica” del territorio.
Quindi talmente tante persone allo stesso momento da rendere impossibile la vita ai residenti, e anche sgradevole l’esperienza agli stessi viaggiatori.

Oltre a casi europei celebri come l’apripista Barcellona, pensiamo subito a città come Venezia, o Napoli, ostaggi di una perenne invasione turistica, che riduce l’economia locale ad una corsa al ribasso per accaparrarsi la fetta maggiore di visitatori e clienti spendenti.

Ma il fenomeno ha recentemente spostato il mirino su località minori, a maggior ragione impreparate a flussi simili, per esempio Cinque Terre. Talmente è alta la domanda turistica che non bastano gli alloggi destinabili ai pernottamenti, e non si può costruirne degli altri, quindi che fare?

«Diciamo ai turisti che se sono affaticati a fare la salita di Manarola qui non devono venire. Che non è diritto di tutti fare tutto. Il senso del limite è un concetto che dovrà essere sempre più utilizzato nel turismo (…)», cito dall’articolo Turismo INsostenibile alle Cinque Terre.

Il senso del limite, prendo appunti.
Non dimentichiamoci che Le Cinque Terre, nate come borghi di pescatori, avevano pensato gli impianti fognari con scarico a mare.
In estate la popolazione decuplica, come minimo. Due più due, e qui i dolori arrivano prima.

Sì, perchè i trend di mercato e promozione turistica hanno visto queste micro-destinazioni, di nicchia e pittoresche, salire alla ribalta come alternativa a mete famose e quindi ormai inflazionate – fisicamente e digitalmente – creando però scompensi gravissimi nel settore immobiliare, con prezzi alle stelle, o nell’erogazione di certi basilari servizi che non vengono però visti come una necessità per un luogo diventato ormai un villaggio vacanze.
Contesto che a me, da sarda, suona piuttosto familiare.

Cito un passaggio attinente da quest’ottimo pezzo di Ignazio Caruso, Il futuro della Sardegna non può essere solo l’ospitalità:
«(…) non è questa una filippica anti-turismo. Esiste però una soglia superata la quale non sono più i turisti e usufruire dei servizi pensati per i residenti, come è naturale che sia, ma il contrario: in sostanza, le nostre città, i nostri paesi, non esistono più per sé stessi, ma in funzione dei turisti. Il superamento di questo confine ha conseguenze spesso irreversibili non solo nell’economia, ma anche nella cultura e nel tessuto sociale di un luogo. Scompare così la bottega artigiana per far posto al ristorante, l’oleificio per far posto all’affittacamere, e così via. Ma non solo: nelle città costiere, il mercato delle seconde case e dei b&b (per non parlare dei “si affitta settembre-maggio) altera i prezzi degli immobili, rendendo così più arduo l’acquisto di una casa da parte dei residenti; lo stesso avviene per la maggioranza dei beni di consumo.»

In un secondo momento vorrei approfondire anche su gentrificazione e colonialismo abitativo, e quante altre cose stiamo immolando e sacrificando sull’altare del dio turismo.

Ad ogni modo, in una società basata sul social sharing e una necessità bulimica di contenuti sempre nuovi da sfoggiare come medaglie sui nostri feed, la ricerca spasmodica di panorami inediti è vitale.

Soprattutto è diventata ormai iper accessibile, tutti praticamente possono fare vacanze con poco, vicine o lontane, e immortalarle, e moltissimi si ingegnano a fare proprio del Travel Advisor – un moderno consulente viaggi digitale e senza agenzia – il proprio mestiere. Improvvisato.

Quando il lavoro non c’è

Basta una ricerca veloce per renderci conto che ultimamente, complici sempre i social che permettono un’autopromozione estremamente semplice ed efficace, sono fioccati i servizi di Local Guides\Local Expert, guide del posto insomma, la maggior parte delle quali ovviamente non registrate né responsabilizzate.

Complice un’iniziativa del colosso AirBnb, che dava la possibilità a molti host di offrire anche esperienze – come corsi di cucina o appunto giri turistici – dietro compenso, in tanti hanno pensato di improvvisarsi un po’ nel settore.
Non è raro imbattersi in carovane di auto, con una persona del posto che accompagna i turisti a vedere angolini noti solo ai locals: punti panoramici, calette, ma anche visite dei centri storici. Quest’estate mi è capitato di trovare un ragazzo, con un gruppo nordeuropeo al seguito, proprio in una caletta sulla Alghero-Bosa; caletta solitamente frequentata da anziani pescatori o giovani locals in fuga dalle migrazioni turistiche.
Inutile dissimulare il mio sconforto.

Tutto lecito – o quasi – non sta a me farne questione legale, ma questi Local Expert spesso fanno dell’esperienza e del servizio da vendere ai turisti, un’attività completamente a discapito dell’ambiente e di chi in quei posti ci vive tutto l’anno.

Non vogliamo ricordarci delle turiste che in pieno agosto condividevano nelle Instagram Stories scorpacciate di ricci a bordo di un barchino, con la compiacenza sottintesa di chi le e accompagnava, appunto, e che proprio quei ricci li aveva pescati per loro, pur sapendo del fermo biologico.

Una guida dovrebbe avere innanzitutto a cuore la tutela del proprio territorio, e conoscerne le norme ambientali, legislative ed etiche.

Perciò, dalle escursioni con picnic e taglieri instagrammabili proprio a ridosso delle piscine di Bau Mela, sino alle gite in barca comprese di pranzo pescato a bordo, ciò che conta è l’experience e che sia esteticamente gradevole. Parole d’ordine: “esclusivo” “autentico” “indimenticabile”. Social sharable, insomma, che generi invidia, che sia irraggiungibile ai più.

Sia chiaro, non c’è nulla di male a mangiare due pezzi di salsiccia e formaggio vicino ad una piscina naturale, o a mettere su un’impresa a sfondo turistico, bisogna pur campà; il problema sorge quando i flussi di persone diventano incontrollabili, i luoghi piccoli e fragili diventano virali, e si cominciano a pretendere servizi e comodità che non fanno parte di quel luogo.
Per citare il commento di un’utente sotto un video di una piscina sull’isola di Sant’Antioco:
«Ci vorrebbe un bel calice di prosecco servito a “bordo vasca”… e sarebbe vero paradiso.»

Ecco appunto, esigere servizi dove non ce ne sono, è così che si giunge alla speculazione.
Un attimo ancora e ci arrivo.

Il paradosso dell’esclusivo-virale

La prima volta che ho cominciato a pormi queste domande, e provare un certo senso di ingiustizia, è stato vedendo per caso un reel dedicato ad una spiaggetta nascosta in una cittadina in Liguria. Piccolissima, una ventina di metri ed acqua smeraldina, nascosta dalla vegetazione e ad accesso pubblico tramite una gradinata. Quasi surreale.

Una creator pensa bene di sponsorizzare il posto, con la formula che ho citato nell’incipit, proponendolo come alternativa alle spiagge turistiche e a pagamento già conosciute.
Milioni di visualizzazioni in poco tempo, e frotte di commenti furiosi dei cittadini locali o attigui – per lo più anziani – che usavano questo angolo di quiete per sfuggire alla calura estiva, e si sono trovati dall’oggi al domani a far fronte ad una calca disumana di selfisti, famiglie, videomaker, e quant’altro.
La situazione delle spiagge libere poi, in Liguria, è particolarmente grave, e noi sardi dovremmo guardarla con preoccupazione.

Ma questo dei posti virali non è un concetto che ci è sconosciuto: dopo La Pelosa a Stintino, Cala Coticcio, Cane Malu, la Cupola di Bini in Costa Paradiso e Sa Stiddiosa… l’ultimo caso riguarda le piscine naturali nei boschetti circostanti Ussassai.

Qualche “guida” che svolgeva escursioni accompagnate dietro compenso, si è a suo discapito imbattuta in influencer e instagram creator che hanno diffuso immagini e video delle suddette “piscine”, sponsorizzate ad hoc con tanto di commoventi oggetti scenografici – alla faccia della natura da preservare – per fare visualizzazioni, affermando ingenuamente che bastasse evitare la geolocalizzazione per scongiurare la temuta presa d’assalto.
Ma ai tempi dei social ci vuole ben altro per mantenere un segreto, e in pochi giorni il segreto è di Pulcinella.

Risultato: folla armata di go-pro camera che si reca incontrollata sul “luogo magico incontaminato” (ei fu), coda scalpitante sulle rocce sdrucciolevoli per fare un tuffo nella gelida piscinetta (quattro metri quadri) per il tempo di una foto, ma soprattutto sovente totale mancanza di rispetto ambientale, senza contare i problemi di sicurezza e di igiene pubblica (sì, state immaginando bene).

                                                                       (Ig: @matteomarica)

Se poi vogliamo contare che, a detta di ristoratori e gestori del paese, questa folla «non lascia nemmeno un euro di caffè al bar» quindi nessun introito, solo disagi per il paese e gli abituali fruitori – alla faccia di chi sperava di lucrarci sopra – insomma, quale poteva essere la risposta dell’amministrazione?
Divieto assoluto di transito sull’area, destinazione chiusa per sovraffollamento causa sentieri danneggiati e tratti pericolosi. E ora cosa accadrà? Io un’idea me la sono fatta.

Il dilemma pubblico privato

Qui veniamo al quesito, il nucleo di questa riflessione.
Come si regola l’accesso incontrollato ad un’area naturale pubblica?

Se l’interdizione ad un’area privata – come successo con i campi di girasoli, devastati da orde di instagramers in cerca della perfetta foto profilo romantica – è perfettamente comprensibile, per le aree come spiagge e boschi il discorso si fa spinoso.

Da una parte i molti visitatori ansiosi di bagnare i piedi nelle barbaricine vasche naturali inneggiano ad un ticket con annessa guida, sul modello “pago un servizio e pretendo il mio turno” in stile Cala Coticcio insomma. Dall’altra residenti ed abituè protestano: perchè dover pagare per l’ennesima cosa che fino l’altro giorno era gratuita e “anche nostra”?

Sarebbe buona norma sempre, prenderci cura dei comuni liberi spazi, boschi, monumenti, specialmente quando non regolamentati dalle amministrazioni.
Questo purtroppo spesso non viene fatto.

Le amministrazioni tendono ad applicare sempre il solito schema: imporre un ticket d’entrata, con la scusa della salvaguardia ambientale, per fare cassa e teoricamente regolare i flussi incontrollati.
E qui spesso l’unico risultato è solo quello di fare cassa, e i flussi non si arrestano, anzi.
Basta vedere le proteste delle ultime estati a La Pelosa, dove dopo lunghe code e puntuali prenotazioni, ci si trovava comunque pigiati con centinaia di altri illusi paganti.

Andare al mare e passare il tempo in spiaggia è sempre stato passatempo e sfogo estivo a costo zero, accessibile a tutti. Chi aveva disponibilità poteva pagare il servizio della sdraio e docce, o dei giretti in pedalò, ma erano comodità accessorie, superflue.

Adesso invece si sta considerando il semplice tuffo in acqua, o il sostare sulla sabbia, come un bene prezioso e quindi mercificabile, come insegnano Liguria ed Emilia Romagna dove oltre il 70% dei litorali sono occupati da stabilimenti balneari.

Sono già tante le spiagge in Sardegna che prevedono il pagamento di un biglietto per il solo accesso alla spiaggia, senza nessun altro servizio se non quello di poter fare un bagno e prendere un po’ di sole.
E non parliamo di spicci, e i costi sono addirittura destinati a salire “per adeguarsi ai tariffari nazionali, di chi non ha nemmeno il nostro stesso mare!”.
Chi dice sia giusto è perché ne fa una questione di etica e orgoglio campanilista, le nostre splendide spiagge meritano di essere pagate quanto quelle altrui, ma non è affatto questo il punto. Davvero è questo il modello al quale vogliamo aspirare?

Qui non saremo ancora arrivati agli stabilimenti in tott’ue, ma tra ticket per il posto auto e ticket d’ingresso, in certe spiagge si raggiungono cifre importanti, soltanto per farsi un pomeriggio di mare. Esclusi i residenti certo, ma chi abita nel comune accanto invece si trova a fronteggiare spese assurde e trattamenti da turista in villeggiatura.

Sindrome di Venezia e luna park distopici

«Paghereste un biglietto per entrare a Venezia?», recitava un articolo di qualche tempo fa. Venezia, per premiare il ”turismo di qualità”, e scoraggiare quello “mordi e fuggi” di chi la vive come un set dove fare foto in giornata, imporrà un biglietto d’accesso alla città, a partire da quest’estate 2023.
Sostando più a lungo, si pagherebbe via via meno questo biglietto.
Ma fermarsi a lungo non è affatto sinonimo di turismo di qualità o di tutela del posto, anzi.

30 milioni di turisti all’anno a fronte di appena 50 mila abitanti nel centro veneziano, davvero sarebbe saggio trattenerli più a lungo possibile?
E per il bene dell’ecosistema, oppure delle casse cittadine e speculazioni?

Quello sul quale bisognerebbe lavorare, il vero di turismo di qualità, è solo quello sostenibile.
Nei numeri, nei mezzi di trasporto, nei servizi, nell’efficientamento energetico, nella raccolta differenziata, nel commercio, nella ristorazione. Quanto più lontano ci sia dall’over-tourism, di certo.

Mentre dal mio punto di vista è comprensibilissima la ratio del numero chiuso, dell’accesso limitato, per limitare l’erosione di litorali ed ecosistemi delicati, non lo è quella del pagamento fine a se stesso.
Si usa spesso il paragone della spiaggia con il museo, ma penso ne differisca totalmente nel mantenimento, nei servizi e nei costi necessari.

La nostra isola non deve diventare un villaggio vacanze, e siti d’interesse naturale non possono diventare musei dove si accede solo tramite biglietto in estate, mentre in inverno vengono lasciati a sé stessi, in attesa della prossima stagione.

Non ci si può nemmeno accontentare di queste orde momentanee che imperversano barbare giusto il tempo di girare un reel. Ci mancano i servizi di base, la continuità territoriale, e invece gustiamo con soddisfazione queste briciole di popolarità intermittente, vedi Cortes Apertas, e su questi momenti vogliamo puntare il bilancio territoriale e i programmi culturali dell’isola?

Chi la Sardegna vuole viverla, costruirci un futuro, auspicare ad una permanenza serena sulla propria terra natìa, deve guardare con occhio critico l’attività social e le sponsorizzate di certi creator, e con ancora più criticità le scelte arbitrarie di certi amministratori.

Chiediamoci cosa possiamo davvero fare per tutelare il nostro patrimonio, e per viverlo noi stessi al meglio, in prima persona. A cominciare dall’educazione ambientale e civica, per esempio. Il dilemma del turismo sostenibile, non può avere come risoluzione quello di una tassa salata, troppo salata per noi, che finiremo per non potercela più permettere, come è successo in Grecia.

Concludo: tra i casi di over-tourism più memorabili tra quelli da me analizzati nell’ultimo periodo, mi è rimasto impresso quello di una piscina naturale del Friuli, piccola e cristallina, presa d’assalto in modo ormai irreversibile dopo una smodata condivisione social.
In realtà memorabile è per me il commento di un utente sotto a quel post, che cito per chiudere questo articolo:

«Ma chi cazzo li vuole i turisti in Friuli. Vergognatevi a spammare su internet questi paradisi solo per avere qualche view in più. Il risultato sarà avere immondizia abbandonata persino in questi posti.
Attenti voi che visitate il Friuli, e ancora più attenti voi che ci spammate. Difenderemo la nostra terra dalla merda del mondo fino alla morte.
»

Sottoscrivo. Amen.

Bibliografia utile

  • Hartman, S., Sijtsma, F. J. (2018). Sustainable Tourism in the Wadden Sea Region: key mechanisms to overcome barriers to sustainability.
  • Claudio Minca, (2010). The Island: Work, Tourism and the Biopolitical
  • Gerry Kearns, Chris Philo (1993). Culture, History, Capital: A Critical Introduction to the Selling of Places
  • Ivan Murray Mas (2015). CAPITALISMO Y TURISMO EN ESPAÑA – Del “milagro económico” a la “gran crisis”
  • Malcolm Crick (1989). Representations of International Tourism in the Social Sciences: Sun, Sex, Sights, Savings, and Servility
  • Inside Airbnb. (2017). Get the Data.
  • (2018). Turismo e shadow economy.
  • Ajuntament de Barcelona. (2017). Barcelona Tourism for 2020 – A collective strategy for sustainable tourism.
  • Città di Venezia, Project of territorial governance of tourism in Venice. 2017.
  • Panayiotopoulos A., Pisano C., Overtourism Dystopias and Socialist Utopias: Towards an Urban Armature for Dubrovnik. 2019
  • Exarchia: How Airbnb angered Greek anarchists (2019

                                             Credits: Gavoi Memes

Valentina Veronica Peana

Valentina Veronica Peana

Valentina Veronica Peana, millennial, algherese e attivista. Si è laureata in Psicologia a Sassari con una tesi in neurofarmacologia (Oltre la finitudine umana) e si occupa di comunicazione. Per lavoro scrive di arte, persone, territorio e cultura. Per svago idem. Ceramista e pittrice a tempo perso, grande fan del pensiero laterale e della meme culture.