LA PORTA DI KANAFANI LOTTA DI LIBERAZIONE, LOTTA PER LA VITA – PARTE 2

di Samed Ismail

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Nell’articolo La questione palestinese non è solo “questione di classe”[1] abbiamo visto Kanafani interrogarsi sulla verità e sui valori, sulle posizioni di relativismo e assolutismo.

Anche La Porta si chiude con questi temi, declinati all’interno della cornice materialista.

Contro il materialismo

L’eroe Sciaddad, con la sua critica esistenziale alla vita, pone sotto accusa il dio Huba, che governa il mondo e l’aldilà secondo i termini assoluti della religione. Sciaddad giunge alla negazione della vita a partire dall’esperienza prospettica fondata sui bisogni materiali e biologici, tuttavia non rifiuta l’assolutismo in quanto tale, ma poiché incapace di riscattare l’essere umano dalla sua miseria materiale e dal relativismo intellettuale che rendono l’esistenza priva di senso. Il nostro non è un propugnatore dell’ateismo, tantomeno del nichilismo prospettico, al contrario, è un credente deluso che intende sostituirsi a Dio e perciò afferma: «ma perché sei tu Huba, perché non sono io?».

Abbiamo detto che dopo la morte il protagonista si ritrova in un aldilà che risulta essere sostanzialmente un duplicato della terra, come la terra «via di mezzo» tra inferno e paradiso. Qui il protagonista incontra due uomini senza nome. Entrambi amavano la stessa donna, uno dei due, vedendosi tradito, ha ucciso l’altro. Cosa significa questa parabola? Le due passioni umane più radicali, amore e odio, che poi sono il sostrato degli altri valori, perdono di senso nell’aldilà. Questo perché sono legate alla materia: si ama una donna, si odia la donna amata e l’uomo con cui tradisce. Huba « non è per niente interessato a ciò che sulla terra viene definito “il tradimento coniugale”. L’amore, l’amore soltanto è importante per lui». L’amore, smarcato dal riferimento materiale diventa assoluto, ma, contemporaneamente, nell’assoluto trova il compimento del suo relativismo che, sempre a causa della materia, era degenerato in odio: «nessuno di noi amava la ragazza di più».

Il carattere “quantitativo” dei valori e dello scontro umano che verte sulla controparte materiale è messo in discussione. Valori individualmente assoluti sono tra loro incommensurabili. In termini di qualità si confrontano mele con pere. Il “castigo” che Huba assegna ai due uomini non ha alcuna finalità pedagogica, c’è solo la reiterazione della “colpa”, che rivela l’assurdità del materialismo allo spettatore ma non ai penitenti: al primo «ha dato qualche stoffa dicendogli di cucire un abito per la ragazza che amava. Se l’ama davvero ciò significa che deve essersi fatto un’idea esatta delle misure del suo corpo. Se desidera ottenere la ragazza, il vestito dovrà essere perfettamente adatto a lei. Non ha che questa sola occasione per provarlo»; il secondo invece «deve conoscere il numero di punti che ci sono voluti per cucire il suo vestito».
Amare una persona significa solo conoscerne il corpo? Cosa ci dice questo sulla verità dell’amore? Criteri meramente quantitativi e materiali non sono criteri di verità in senso profondo ed esistenziale.

“Egli fa continui sforzi per ottenere la ragazza, non perché la ami veramente, ma perché si tratta di vincere o di perdere”.

A dispetto del materialismo ciò che interessa all’uomo è il contendere, non l’oggetto della contesa né il valore di cui è simbolo. Con ciò gli uomini si dimostrano incapaci di amare ma anche di odiare. La lotta per loro è, in fondo, solo un gioco, un amabile passatempo:

“È una specie di nobile duello. Se vuole avere la ragazza deve fare ogni sforzo per farmela perdere, come per tutte le cose del mondo”.

L’importante non è tanto vincere, quanto far perdere l’avversario. La vera vittoria è la sconfitta del nemico. Ma in realtà anche questa è solo una finzione perché:

“Noi siamo seduti insieme al punto che ciascuno di noi è costretto ad assumersi il destino dell’altro e a pensare alla sua sorte, tanto che poco conta l’idea della vittoria e quella della sconfitta”.

La vittoria e la sconfitta non sono possibili in una dimensione in cui l’uomo non aspira a nulla, ma solo «al compagno», a non essere soli nell’assenza di valori. In pochi passaggi è descritto uno stato emotivo-esistenziale che si può perfettamente attribuire a una modernità in cui l’amore e l’affetto assumono una forma reazionaria, dove l’altro, inteso ancora in senso materiale, diventa un mezzo, un “compagno” ma di sventura.

Lo scontro tra Sciadddad e Huba sarà di natura diversa?

SCIADDAD: Nel culmine della battaglia non ho pensato né alla vittoria né alla sconfitta. Ho pensato a te, a te soltanto.

La contropartita

Sciaddad rinfaccia a Huba di aver creato «un mondo spregevole ed assurdo». Il suo argomento principale contro Dio è l’ingiustizia naturale, il fatto che la natura non segua una razionalità a cui ci si possa appellare:

HUBA Oh! Mi ripeterai adesso tutto ciò che ho sentito per generazioni e generazioni! Mi elencherai i drammi di cui sei stato testimone! In procinto di piangere come fanno tutti, mi racconterai – lo so – di bambini morti senza aver commesso alcuna colpa, di altri vissuti per soffrire senza ragione. Sono storie vecchie, vecchie quanto me!

 Rimanda precisamente alla Ribellione di Ivan Karamazov:

Loro [gli adulti] hanno mangiato il pomo, han conosciuto il bene e il male, e son diventati «sicut dei». E continuano ancora a mangiarlo. Ma i piccoli bambini non hanno mangiato nulla, e ancora non hanno nessuna colpa. […] Non è possibile che un innocente debba soffrire per le colpe d’un altro: e di quali innocenti si tratta![2]

Sciaddad si ritrova dunque a difendere l’esistenza che prima aveva attaccato, addirittura criticandone gli aspetti positivi piuttosto che quelli negativi! Aveva denigrato i piaceri materiali ma adesso pretende non qualcosa che trascenda effettivamente il reale, ma un altro mondo materiale, esattamente come Iram voleva concorrere con il paradiso sullo stesso piano di valore; davanti a Dio si ritrova a rivendicare un’esistenza in cui ci sia l’assoluto bene e non il dolore. La differenza tra il personaggio di Kanafani e quello di Dostoevskij è tutta in questa lampante contraddizione. Ivan si rende perfettamente conto che felicità e libertà si escludono a vicenda, e questa è precisamente la morale del Grande Inquisitore: Dio ha fatto gli uomini liberi, ma la libertà rende l’uomo infelice, perciò l’uomo scambia la libertà per il pane e per la sicurezza[3].

Huba, infatti, afferma che il suo dominio si fonda semplicemente sul fatto che gli uomini hanno rinunciato alla loro libertà in suo favore:

HUBA: Siete voi che mi avete dato il potere di giudicarvi bugiardi, di avere sempre l’ultima parola. Tuttavia voglio dirti qualcosa di importante: non ci sarebbe potere, né ultima parola se tu non me li dessi!
[…]
SCIADDAD: Ma tu ci chiedi di prostrarci ai piedi del tuo simulacro di pietra, darti i nostri figli, i nostri cuori, il sangue delle nostre greggi. Ci avvilisci per farti ringraziare e allorché ti ringraziamo ci riduci in schiavitù.
HUBA: Non ho mai preteso ciò. Anzi, il mio simulacro di pietra, quello di cui tu parli, non lo conosco. Tu stesso hai detto che non mi somiglia. Te l’ho detto. Quando gli uomini mi hanno riconosciuto come qualcosa di esterno ad essi, hanno pensato di dovermi accogliere degnamente allorché fossi venuto, o che io dovessi accoglierli degnamente allorché fossero venuti loro da me.

Che non è altro che il rovesciamento di:

Codesta gente è persuasa, più che non sia stata mai, d’essere libera in pieno, mentre pure con le proprie mani essi han recato a noi la loro libertà e l’hanno umilmente deposta ai nostri piedi[4].

Karamazov è annientato dal suo dissidio interiore: non riesce ad essere né libero né felice, né a credere pur volendo. Sciaddad invece vuole sia la libertà che il paradiso:

HUBA: Tu vuoi parlare del compenso adesso! Ma chi è che ha organizzato il vostro mondo sulla base del fatto che la felicità e il corrispettivo della pena e la mercede del lavoro? Chi? Ogni cosa nel mondo è fine a se stessa. Niente compensa mai niente. Lo capisci? Il tuo giorno, con tutto ciò che comporta, non ha altra contropartita che se stesso. […] Sempre questa terribile idea della contropartita! Ogni cosa che fai, vuoi che abbia una contropartita. Io ti proporrei un pallone di gomma che tu continuerai a lanciare contro il muro perché rimbalzi su di te. Continuerai a farlo finché non ti sarai convinto che la cosa più stupida nell’esistenza è aspettarsi la contropartita delle proprie azioni.

(Un pallone di gomma cade dal soffitto e rimbalza a terra più volte).
Ti è stato regalato il pallone senza contropartita, l’hai notato?
SCIADDAD (adirato): Ma perché? Perché dovrei fare una cosa così idiota?
HUBA: Perché tu stesso hai voluto che il mondo fosse così. Non hai appena detto che la vita senza contropartita è stupida e spregevole?
SCIADDAD: Ma la vita non è un pallone di gomma.
HUBA: È quello che io ho sempre pensato.

Il dio cerca di dare profondità alla natura umana non riesce a vedere e comprendere il quadro totale, e il conseguente annullamento dei valori al suo interno. Il discorso sulla contropartita, perfettamente rappresentato dalla metafora della palla, è un ammonimento al materialismo ingenuo, che si appella alla libertà e alla felicità ignorando il rovescio della medaglia:

HUBA: Come ti viene in mente, anche solo per un istate, che io possa tener conto dei singoli individui in maniera così ridicola? Credi che se tu avessi regnato su Iram, avresti potuto dare la felicità a tutte le persone, avresti potuto pensare a tutti gli individui? Sono stato testimone, io, di tante morti, che sarebbe impossibile contarle o ricordarle o perfino ricordare quando sono cominciate. Tuttavia, che credi? Io qui penso all’universo intero, di secolo in secolo, di generazione in generazione, tutto insieme. Quando hai edificato Iram hai forse pensato a tutti gli operai che sono morti sotto la sferza del sole o sotto i cedimenti dei blocchi di marmo?

L’inganno della porta

SCIADDAD: Non vedete che ci inganna? Che ci dà un’unica occasione per un’unica scelta, chiudendoci in faccia tutte le altre porte?

Eppure è sull’uscio di una porta chiusa che si conclude il dramma, anche se più che una conclusione si tratta di un enigma irrisolto. La porta, da cui il titolo, è l’ingresso e l’uscita che separa l’aldilà dall’aldiquà. Sciaddad, assieme ai due uomini, capisce che l’unico modo per vincere è attraversare la porta, far scorrere il tempo a ritroso dalla morte alla nascita. Ma cosa significa fuor di metafora tutto ciò? Dopo il Grande Inquisitore, dobbiamo scomodare un’altra perla della letteratura mondiale, che forse può aiutarci nell’interpretazione. Nella parabola Davanti alla Legge, narrata all’interno de Il Processo di Kafka, abbiamo infatti un’altra porta, il cui significato è però fissato: rappresenta il passaggio per entrare nella Legge.

Un contadino vuole fare il suo ingresso nella Legge. Il passaggio è libero, c’è solo un guardiano a sbarrargli la strada, a dissuaderlo con le parole dall’attraversamento. Il contadino si arresta, ma rimane in attesa sulla soglia, fermo comunque sulla sua volontà di entrare. Egli passa tutta la vita “Davanti alla Legge”, ad interrogare il guardiano, finché, in punto di morte, quando la Legge è ormai irraggiungibile, il contadino pone l’ultima domanda:

GUARDIANO: Cosa vuoi sapere adesso? Sei insaziabile.
CONTADINO: Tutti tendono alla Legge. Come mai in tanti anni nessuno oltre me ha chiesto di entrare?
GUARDIANO: Qui non poteva avere accesso nessun altro, perché questo ingresso era destinato soltanto a te, adesso vado e lo chiudo[5].

Giorgio Agamben, in Homo Sacer, dà la seguente lettura:

Nulla – e certamente non il diniego del guardiano – impedisce al contadino di entrare nella porta della legge, se non il fatto che questa porta è sempre già aperta e che la legge non prescrive nulla[6].

Nell’opera di Kanafani invece la chiusura della porta è l’elemento scatenante che spinge all’attraversamento: il mondo e la sua legge sono nelle mani di Dio e non dell’uomo. L’uomo lotta per la propria libertà, ovvero per entrare nella propria legge, ma non è possibile imporre un nuovo diritto se ce n’è un altro già stabilito.

La porta di Kafka è il destino del contadino, aperto perché già nel contadino era la legge, che è già nell’uomo sempre disponibile. L’apertura ad ogni modo non conferisce contenuto, perciò l’inganno: la mancanza della porta come ostacolo ha rivelato al contadino che la sua legge era vuota, priva di contenuto Perciò ha atteso invano che il contenuto venisse dall’esterno, appoggiandosi al custode, incapace di cogliere la porta come suo proprio destino e riconoscersi dunque all’interno della legge.

D’altra parte, Sciaddad, si trova invece davanti ad una porta chiusa ed è ben consapevole del proprio destino, ciò nonostante, anche qui potrebbe esserci un inganno.
Quando si lotta contro il dominio, ci si trova all’interno di un ordine prestabilito, di una legge già scritta. Chi vorrà liberarsi dal dominio, o chi è messo al bando, dovrà, una volta uscito, rientrare nella legge. Il rischio, rientrando, è che la nuova legge ricalchi quella a cui ci ha abituati il dominio.
Passando dalla letteratura alla storia questo è l’errore che sbarrerebbe la strada ai movimenti rivoluzionari e di liberazione nazionale, se in questo momento fossero in grado di avanzare: al di là della lotta essi propagandano un modo di vivere che è sostanzialmente quello del dominio, soltanto depurato dagli aspetti negativi.

Ad ogni modo, essendoci più interpretazioni per Kafka, ce ne può essere una in più per il Nostro, quest’ultima positiva, rimanendo sempre nell’ambito della storia. Pensiamo al caso concreto della Palestina. Il mondo Occidentale e liberale è per i palestinesi un aldilà reale. Qui c’è tutto quello che non si ha sotto occupazione, e che si vorrebbe avere. Il progetto dello Stato palestinese, naufragato come Iram, non è stato forse il tentativo di avvicinare il paradiso della democrazia liberale, la promessa del modo di vivere capitalistico? Ebbene, se un palestinese potesse ritornare dalla civiltà liberale «sarebbe di nuovo la nascita». Sarebbe un ritorno esistenziale e spirituale, non necessariamente fisico, ma altrettanto politico «per dir loro che loro non possono nulla! Oh se potessi tornare e dire a mia madre: Madre! Non sacrificare più vittime al loro simulacro che si erge come un palo» perché «il mondo che ci hanno donato in cambio di un’ignota promessa era un mondo spregevole e assurdo» e il paradiso promesso è spregevole almeno quanto quel mondo.

All’ultima pagina della Porta lo stato d’animo è il seguente:

Questo non era il suo giudizio definitivo. Era troppo stanco per poter valutare tutte le implicazioni della storia, erano inoltre ragionamenti insoliti in cui era condotto, cose irreali, più adatte ad essere discusse nell’ambiente dei funzionari del tribunale che da lui. Quella semplice storia era diventata informe, voleva scuotersela via di dosso[7].  

Note:

[1] https://www.filosofiadelogu.eu/2022/la-questione-palestinese-non-e-solo-questione-di-classe-ghassan-kanafani-e-la-morte-di-dio-di-samed-ismail/

[2] F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, Einaudi, pp. 318-319.

[3] Cfr. Ibid. pp. 335-338.

[4] Ibid. p. 336.

[5] F. Kafka, Il processo, Orsa Maggiore editrice, p. 263.

[6] G. Agamben, Homo Sacer, Einaudi, p. 49.

[7] F. Kafka, Il processo, Orsa Maggiore editrice, p. 270.

Samed Ismail

Samed Ismail

25 anni, nato a Cagliari, membro dell'Associazione Sardegna-Palestina e dei Giovani Palestinesi d'Italia. Laureato in Filosofa e iscritto alla Magistrale di Storia e Società presso l'Università di Cagliari.