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Il riscatto del presente come riscatto della storia

di Sebastiano Ghisu

Foto di Rossella Fadda

Non molti, forse, si ricorderanno di una poesia che Bertolt Brecht scrisse nel 1935 Domande di un lettore operaio. Ne riporto solo i primi versi:

Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?

Dentro i libri ci sono i nomi dei re.

I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?

Babilonia tante volte distrutta,

chi altrettante la riedificò? In quali case

di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?

Dove andarono i muratori, la sera che terminarono

la Grande Muraglia? (…)

Con questi versi, redatti peraltro in un periodo particolarmente drammatico della storia europea, il grande drammaturgo tedesco intende individuare ed esporre il punto di vista dal quale conoscere e fare la storia. Dietro l’apparente armonia, neutralità e bellezza di un artefatto – qualsiasi forma e dimensione esso abbia, qualsiasi funzione possa aver svolto o svolga tuttora – si celano dei conflitti, dei rapporti di dominio, di oppressione e sfruttamento. Brecht richiama l’oppressione di classe, ma se ne potrebbero evocare altre: quella di genere, quella etnica, quella coloniale – sempre o quasi sempre intrecciate fra loro.

In fondo, l’autore dei versi citati, ricordandoci chi realmente fa la storia – o meglio, come la storia fa realmente se stessa – invita a riappropriarci di quegli artefatti. Ed anzi, afferma che i veri proprietari ne sono coloro che li hanno costruiti. Di fatto, poi, nel lungo corso della storia, coloro che, nel loro presente, ne incorporano di volta in volta, l’eredità. In tal senso, la società finalmente emancipata non riscatta solo il presente, ma anche il passato.

E infatti, nella poesia di Brecht, è il presente che legge il passato, ma, sovvertendo il tempo, lo legge come presente: l’oppressione passata è, nello sguardo di chi pone quelle domande, la sua oppressione presente – proprio come la sua attuale lotta per l’emancipazione presente è anche un riscatto dall’oppressione passata (ciò che Walter Benjamin chiamava una costellazione o immagine dialettica).

Ed è lo stesso sguardo, questo, di chi il 7 giugno del 2020, a Bristol, ha abbattuto e poi gettato in mare la statua di Edward Colston, un mercante di schiavi del diciassettesimo secolo. È lo sguardo che vede in quel passato evocato dalla statua ancora soltanto il presente e dunque nell’oppressione passata l’oppressione presente (e nell’oppressione presente quella passata).

Qui, in effetti, l’abbattimento (fosse anche avvenuto diversamente) era l’unica forma di riappropriazione ovvero di riscatto possibile (della storia) – l’unica forma possibile per affermare l’urgenza di un’emancipazione dagli attuali rapporti di dominio. Se infatti gli oggetti (e poi anche gli eventi) citati in modo esemplificativo da Brecht nel suo testo poetico sono comunque in grado di contenere una dialettica interna e racchiudono un conflitto, potendo di questo veicolare l’una e l’altra parte; una statua e soprattutto la sua collocazione pubblica, il suo unilaterale effetto monumentale (ovvero il far da monito) veicolano una sola dimensione del conflitto, mentre del rapporto di potere esaltano una sola parte: quella dell’oppressore (o eventualmente, in linea teorica, quella dell’oppresso). Tertium non datur, si direbbe (fino a che punto un monumento possa essere rimaneggiato in modo tale da farsi rappresentazione anche dell’oppresso oltre che dell’oppressore e quindi ricordare criticamente un rapporto di dominio è un tema che dovrebbe provocare la pratica artistica).

In ogni caso, accettare o rifiutare una statua che ha evidentemente la sua origine nel passato e che quel passato vuole ricordare e soprattutto perpetuare significa prendere posizione nel presente per la sola parte che quella statua rappresenta. Qui non vi è indifferenza possibile e la presunta oggettività dello storico che si presume equidistante è, oggettivamente, falsa, non vera. Perché non è lo sguardo che la statua richiede e impone, non è l’effetto (ideologico) che essa genera in chi la vive e ne attraversa la quotidiana presenza.

In tal senso, lo sguardo che ha abbattuto la statua di Edward Colston a Bristol è lo sguardo con cui i Sardi dovrebbero guardare il monumento a Carlo Felice che incombe a Cagliari in una sua Piazza centrale. L’accettarla e il difenderne la presenza, significa qui, che se ne sia consapevoli o meno, prendere posizione a favore della dinamica storica che quel personaggio ha oggettivamente e soggettivamente supportato, vale a dire la costruzione di un rapporto di dipendenza della Sardegna, il suo effettivo impoverimento e sfruttamento. La statua nasconde tutto ciò. Non fa ricordare, ma dimenticare quanto realmente accaduto. In un certo senso, cancella la storia.

Coloro che ne difendono la presenza in nome della storia (o della memoria) isolano in realtà il passato, che quella statua ricorda, dal suo futuro (il nostro presente) e il nostro presente dal suo passato. Spezzano così una continuità, immaginando evidentemente che quanto accaduto allora non abbia più niente a che fare con quanto accade oggi– il che è, peraltro, dal punto di vista storiografico, assai discutibile.

Ed in effetti tale discontinuità è storicamente infondata. La sua affermazione ha piuttosto una radice ideologica (nel senso che costituisce una forma di disconoscimento del reale) ed è generata dal timore che l’abbattimento di quella statua (in un senso metaforico, inteso come pacifico e regolato allontanamento) rafforzi la posizione di coloro che mettono in discussione ora, nel presente, il rapporto di dipendenza della Sardegna –quella dipendenza coloniale che Carlo Felice ha senz’altro personificato e che tuttora, con la sua rappresentazione monumentale, simboleggia.

Chi dunque ritiene che il presente non debba proiettarsi nel passato, ma custodirlo anche attraverso le sue più brutte rimembranze, alla fin fine proietta nel presente quella parte del passato che ha reso il presente inaccettabile. E così facendo, disconoscel’uno e l’altro.

Di contro, chi propone lo spostamento di quella statua riattualizza il passato, rapportandolo ad un presente che ancora attende la sua liberazione.

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