Articoli

Nomi e statue

Foto di Rossella Fadda

di Alessandro Mongili

In Sardegna, come altrove, la gente ha iniziato a ricordare il passato coloniale e schiavile del mondo, così recente, così attuale, grazie al movimento Black Lives Matter, BLM.

Il pubblico si è diviso. Noi siamo dalla parte dei colonizzatori come tutti gli Italiani (e dobbiamo usare il white privilege per chiedere la rimozione del monumento a Montanelli?) o, in quanto sardi,poiché viviamo in un Altrove Interno o in una colonia interna, siamo più simili ai popoli colonizzati? E, siccome le relazioni di ogni tipo si appoggiano sulla materia, si fanno anche con oggetti o con dispositivi, tutti si sono girati verso Carlo Felice che, in abiti da antico Romano, ci guarda da quasi due secoli dal suo piedistallo nel centro di Cagliari, alla radice della strada che porta il suo nome e incardina tutta l’Isola, anche se voluta da Vittorio Emanuele I e costruita dall’ing. Carbonazzi, che proveniva dal progetto di costruzione di strade magistrali promosso dal governo rivoluzionario francese. Il colonialismo italiano, in fondo, non è iniziato con la conquista del Sud e, prima ancora, con le pratiche estrattive e di saccheggio, con le violenze sabaude, l’imposizione dell’italiano e la creazione di un ceto modernizzatore e mediatore locale legato ai padroni d’Oltremare, come in ogni altra colonia che si rispetti?

Il dibattito a cui assistiamo corrisponde veramente a una frattura profonda della società sarda. Da una parte, le classi colte e soprattutto le classi dirigenti si riconoscono maggioritariamente in un’identità italiana, per loro sinonimo (sic!) di un’identità moderna. Al loro interno, in tanti sostengono BLM come movimento di rivolta occidentale, simile a #metoo o ad altre ondate di protesta che ormai da più di cinquant’anni si irradiano dall’irrequieto cuore americano dell’Occidente. Tipicamente, ignorano del tutto la loro condizione di Sardi e sono, per usare l’espressione gramsciana, dei tipici intellettuali meridionali, turisti a casa loro. Ma una parte rilevante è ostile a BLM perché aderisce all’idea che la civiltà occidentale sia superiore alle altre, per suprematismo dunque, secondo un senso comune che si è rafforzato in tutto l’Occidente dopo l’11 Settembre, e in Italia ha portato tanti voti alla Lega e alla destra. La Sardegna è piena di una destra suprematista, anche fra gli indipendentisti, e fra le classi popolari trova molto sostegno grazie a una campagna mediatica terribile, fondata sulla paura del diverso, soprattutto se di pelle scura, e sul razzismo, dunque. Il processo di modernizzazione come italianizzazione dall’alto che abbiamo vissuto ha rafforzato questa predisposizione. Essa si fonda su più di un secolo di lavoro di dispositivi che arrivano sin dentro le case: la scuola, la sanità pubblica, il welfare, il servizio militare e il lavoro negli organi dello Stato, lo sport, la comunicazione televisiva. Ha forgiato tipi di personalità. Ha un profondo seguito fra la gente e un’enorme egemonia sul senso comune. In ogni generazione, si ricapitola con docilità e senza opposizioni il passaggio necessario fra Risorgimento e Fascismo, ma stavolta a livello di massa. Spesso, la sinistra è stata complice, perché ha fatto proprio il senso di superiorità dell’Occidente.

Un’altra posizione è rappresentata dalla maggioranza di chi ha sviluppato un’identità indipendente, si è liberato della costruzione dei sardi come Italiani (di seconda classe), un processo depressivo per la società e per molti individui che ne sono vittime, perché fondato sulla negazione della propria condizione reale. Fra di essi, non tutti si riconoscono in una visione della Sardegna come luogo coloniale. In tanti hanno una visione nazionalista e di un luogo europeo come un altro. Però al loro interno BLM ha agito come un potente richiamo all’esistenza della negazione verso la nostra condizione e la nostra storia come struttura portante della nostra identità pubblica, e, nel momento in cui ha iniziato ad attaccare le statue, al fatto che la memoria pubblica sia completamente mutilata della nostra storia, la oscuri completamente, per essere sinceri, e ne mascheri le vicende eminenti. Talvolta disordinato, ammantato anche di un insopportabile vittimismo (tipico però di ogni processo simile, compresi quelli che caratterizzano le donne, i queer di ogni natura, e tutte le minoranze), privo di un forte supporto scientifico perché escluso dai percorsi accademici, solidamente presidiati da storici nazionalisti italiani e intolleranti verso ogni altra posizione, questo movimento è ispirato da una pubblicistica di forte diffusione. Il suo slogan potrebbe essere Sardinian History Matters, e per diverse ragioni storiche il suo obiettivo si è rivolto contro la statua del Re e Viceré di Sardegna Carlo Felice di Savoia.

In Sardegna, la storia sarda è esclusa sic et simpliciter dalla memoria condivisa. Riservata a pochi circoli chiusi è praticata nelle Università solo all’interno di un rigido paradigma anti-indipendentista. Cioè è intrisa di ideologia, come appare dalle dichiarazioni talvolta sconcertanti per ignoranza e squilibrio di alcuni giovani polli d’allevamento di questa scuola. Sino al 1984, e alla pubblicazione della Storia della Sardegna sabauda di Girolamo Sotgiu, della Sarda rivoluzione si parlava per esempio solo nei termini vaghi di moti angioyani, magari attribuendo loro un vago sapore “autonomistico”, secondo i sentimenti di allora. Lentamente, pezzi interi di memoria sono riemersi. Il numero delle vittime, i documenti, la ferocia sabauda. La deforestazione, l’industria estrattiva concessa solo ai non sardi, con un’eccezione, le guerre dei dazi, l’italianizzazione linguistica forzata, le Chiudende e l’abolizione degli ademprivi, eccetera eccetera. Grande pregio in questo senso ha avuto il libro di Francesco Casula su Carlo Felice e i tiranni sabaudi, che ha portato il tema in ogni luogo della Sardegna con una campagna di diffusione che è un unicum per la sua vastità e per il coinvolgimento popolare.

Non c’è in Sardegna memoria condivisa della storia sarda, questo è il problema e questo è il limite pericoloso delle posizioni difese dagli storici italianisti e dal senso comune filo-statuale. Se esistesse una memoria condivisa, arricchita e comprensiva anche di noi Sardi, probabilmente a Carlo Felice tutti guarderemmo con indifferenza. Così non è anche per il negazionismo rabbioso dei tanti sciovinisti italiani di Sardegna, così forti fra i ceti dirigenti e nelle strutture accademiche e poste a presidio della memoria pubblica. Gli unici casi inclusi nella memoria riguardano proprio loro, cioè gli esponenti dei gruppi dirigenti, in particolare coloro che si sono dedicati al servizio degli interessi dei re sabaudi e dei governi italiani. Questo è particolarmente visibile nella toponomastica e negli artefatti (denominazioni, monumenti, celebrazioni, ecc.) che segnano la memoria condivisa e pubblica. In questo caso, si è annientata la storia dei luoghi così come era raccontata dalle denominazioni antecedenti l’italianizzazione dall’alto, presentata dai ceti dominanti come “modernizzazione”. Così, almeno a Cagliari, Ruga de is Argiolas (“via delle aie”) e Ruga de is Incastrus sono oggi via Garibaldi (cui è dedicata in sovrappiù anche una Piazza); Ruga Dereta e Ruga de sa Purìssima, via Lamarmora; Ruga de is Prateris (degli Argentieri), via Mazzini; Ruga de sa Costa, via Manno; Pratza de Santu Franciscu e Ruga de su Brugu, Corso V. Emanuele; Pratza de su Mercau, Largo Carlo Felice, Centuscalas, Via Anfiteatro. Per la storia e la cultura sarda non è rimasto niente, una volta che si è distrutta la toponomastica tradizionale, peraltro così bella ed evocativa e che potrebbe rappresentare un punto di incontro fra varie posizioni diverse, se la si ristabilisse. Via Eleonora d’Arborea è una strada secondaria, nessuna strada è dedicata a Mariano IV d’Arborea, ad Amsicora e Josto, ai Morti di Buggerru, di Gonnesa e di Iglesias, a eventi quali il 28 Aprile, alla rivolta operaia cagliaritana del 1906, alla Battaglia di Sanluri del 1409, così come ai Nuraghi (una viuzza a Pirri), alle Domus de Janas, alla Carta de Logu, ai Condaxes e ad altri monumenti materiali e immateriali della nostra esperienza storica.

Ancor meno spazio è dedicato all’uso della lingua sarda, che è ridotta ad alcuni nomi di luogo (Via is Guadatzonis, via Sant’Alenixedda). Solo dieci anni fa, grazie ai consiglieri comunali Marco Murgia e Enrico Lobina, essa è utilizzata per denominare gli spazi ( “ruga”, “pratza”, “bia”, “strintu”, “stradoni”, “pratzixedda”, “pratzita”, per esempio), ma non le vie. Altre iniziative sarde, fra cui l’appello online ispirato a Francesco Casula per lo spostamento della statua di Carlo Felice, le prese di posizione di amministratori indipendentisti e le decisioni di piccoli comuni, hanno cercato di modificare le cose sul terreno, incontrando sempre ostacoli politici feroci, mascherati da forme burocratiche. In questo spirito di negazione e di annientamento delle richieste sardiste, lo spirito forcaiolo di Carlo Felice riecheggia ancora oggi, interpretato però da giovani storici apparentemente liberal.

Memorie sommerse

Tutto questo è normale. Qualcosa di analogo è accaduto ovunque. Per esempio, in URSS. Ai tempi della perestrojka, minuscole esposizioni di poche foto del GULag, in lontane periferie, cominciavano a tirar fuori dal dimenticatoio memorie terribili, a lungo nascoste dalla narrazione ufficiale, inesistenti nella memoria collettiva. Poi arrivò il tempo del ritorno dei nomi storici per città e vie, del rovesciamento delle statue, della ricerca dei luoghi delle esecuzioni sommarie e dei lager, soprattutto nelle ex-Repubbliche sovietiche e nei Paesi già socialisti. Maria Ferretti ha dedicato un’opera magistrale a queste pratiche di ricostruzione della memoria dal basso in La memoria mutilata (1993). Si tratta di un processo che, similmente a quello sardo, ha avuto contro le Università e le istituzioni ufficiali che custodiscono la memoria, che infatti hanno subito alimentato la reazione attuale in Russia. Però, in quesi paesi, associazioni della società civile, fra cui spicca Memorial in Russia, hanno sviluppato un lavoro dal basso che è rivolto non solo alla conservazione e alla difesa degli archivi della memoria, ma anche alla costruzione di monumenti o alla loro promozione dal basso, come quello alle vittime del GULag di fronte alla Lubjanka, la sede del KGB, a Mosca. In modo simile, dopo molto decenni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1985, il film Shoah di Claude Lanzmann rilanciò il tema dello sterminio ebraico in Occidente, un tema a lungo poco indagato, e scomodo, dando la stura a un movimento che diventò presto parte della ricostruzione della memoria occidentale che, dopo la caduta del Muro di Berlino, fu estesa anche ai Paesi dell’est ed ex-sovietici (esclusa la Russia). Più difficile e lunga è stata l’opera di ricostruzione della memoria da parte degli afrodiscendenti americani, scampati alla schiavitù ma usciti da molto poco dalla segregazione e da regimi si sostanziale Apartheid, e in corso ancora quella degli Indigeni in tanta parte del mondo, dall’Australia alla Mesoamerica, dall’Africa all’Amazzonia.Solo da poco dotati di un ceto intellettuale in grado di dirigere il processo. Non sempre questo processo passa per la rinominazione dei luoghi e per l’abbattimento delle statue. Tuttavia, essendo la memoria come ogni altro fenomeno ancorata in calendari, oggetti, riti e denominazioni, non è certo raro che questo accada, proprio perché relazioni sociali e fenomeni storici sganciati dall’uso dello spazio, del tempo, dei corpi e delle loro abilità, dalle cose e dalla materialità, non esistono. Perché il problema non è tanto la rimozione della storia, quanto il suo riequilibrio, attraverso la ricostruzione della memoria.

In ogni città, la toponomastica registra la stratificazione storica. Gli stessi indirizzi sono nati in Occidente, assieme al sorgere delle Polizie, a cavallo del XVIII e del XIX secolo. Nelle società in cui il potere dello Stato è diventato pervasivo e performativo, le denominazioni dei luoghi sono diventate campi di battaglia. In generale, i regimi autoritari hanno teso a uniformarle e a “colonizzarle”. Il che non è buon segno per noi, perché la nostra toponomastica è uniforme e totalitaria, non lascia scampo. La memoria collettiva è infatti il frutto di una costruzione sociale che stratifica i suoi esiti. La sua posta in gioco è il passato, o meglio, la ri-costruzione del passato nel presente. Se il passato nel presente è la posta in gioco, i luoghi di questa battaglia sono da un lato il linguaggio e i simboli, dall’altro i punti di riferimento nello spazio e nel tempo, i “quadri sociali della memoria”, come diceva Maurice Halbwachs, l’allievo di Émile Durkheim e grande amico di Marc Bloch, morto a Buchenwald nel 1945. La memoria si differenzia dalla storia, e questo dovrebbero ben capirlo coloro che si oppongono a ogni suo cambiamento. La memoria che oggi ingombra il nostro presente e i nostri spazi non è la storia e infatti non si vuolecambiare la storia. Si vuole spesso banalmente ritrovare la propria storia, perché essa è sotterrata sotto strati di negazioni e sotto monumenti e nomi che mirano unicamente a celebrare i ceti dominanti.

Intorno alla memoria esiste un conflitto, ma non è anodino, perché le posizioni di dominio di oggi sono le eredi degli equilibri stabilitisi proprio nell’epoca di Carlo Felice. Da una parte sono infatti schierati coloro che si sentono minacciati da ogni cambiamento nella memoria. Fra di essi, spicca una parte importante della sinistra di governo sarda, che ha fatto la scelta della Patria italiana e con una certa coerenza si esalta per le manifestazioni patriottiche, le Frecce tricolori, la Brigata Sassari e tutta la paccottiglia. Si tratta di un ceto che è l’erede diretto dei funzionari e degli intellettuali che, per usare l’espressione di Accardo e Gabriele (2012), hanno sostituito all’interesse collettivo dei sardi la costruzione e la difesa di carriere personali e l’acquisizione di status rispettabili. Attuali storici seguono le orme dello storico-falsario Martini e dello storico-segretario del Re Manno, cui due strade sono peraltro dedicate a eterna memoria. I ceti dirigenti sardi sono ancora oggi selezionati in base alla loro ubbidienza e alla loro docilità, e alla loro incapacità di pensare liberamente la loro condizione collettiva di sardi se non in termini che svalutino le capacità proprie di sviluppo e di crescita civile e che ne sottolineino l’immobilismo, inscritto in una modellizzazione della sua identità come fissa, immobile, arcaica. Per loro sembra quasi impossibile pensare un futuro di mutuo riconoscimento e di dialogo con tutti i settori della società sarda, e quindi di riconsiderazione della memoria, proprio perché negli “indipendentisti” non vedono altro che i difensori dell’arcaicità, della tradizione e del folklore antiquato, in questo aiutati da molti guitti indipendentisti, popolarissimi non a caso fra i modernizzatori esogeni. A essi si affiancano settori della destra estrema, caratterizzati dal nazionalismo italiano e dallo sciovinismo, anche fascista, che in Sardegna non è assente, soprattutto fra i molti che hanno servito lo Stato nelle forze armate e nelle forze dell’ordine, fra gli eredi del fascismo e del sardo-fascismo, fra i nostalgici, che in vario modo hanno assorbito un lavaggio del cervello fondato sul disprezzo dei Sardi e sull’esaltazione del tricolore e dei valori coloniali, violenti e razzisti che gli sono propri. Per loro è impensabile accettare qualsiasi forma di memoria collettiva se non quella che già conosciamo, cioè una memoria dalla quale noi sardi siamo esclusi, se non in forme forcluse di vittime di battaglia, tamburini sardi e altre figure minori e accessorie, in generale guidate da irrazionalità e istinto. Al governo nei principali comuni in questo momento, non hanno esitato in passato a intitolare vie e piazze a ex-podestà, a massacratori di etiopi o, più banalmente, ad amici dell’ex-Sindaco.

Un aperitivo in Piazza Hitler

Ma l’opposizione maggiore alla rinegoziazione della memoria collettiva non è politicizzata, ma è legata al senso comune. Essa proviene dall’abitudine, dal fatto che si pensi come normale l’intitolazione di interi quartieri, come succede a Cagliari, a tiranni, ai loro servi, o ai peggiori fascisti. È il problema dell’aperitivo in Piazza Hitler, dove l’aperitivo, rito quotidiano, banalizza il fatto che la piazza sia intitolata a un tiranno. E questo è un motivo importante per cui non si dovrebbe chiedere la sostituzione di una denominazione con un’altra, ma optare per un’ecologia e un equilibrio delle denominazioni e dei monumenti, posto che ce ne sia proprio bisogno, di questi ultimi.

Il problema che la stratificazione storica delle città sia implosa in un solo momento della storia (il Risorgimento, il fascismo o come lo si vuole chiamare, ecc.) è un problema simbolico, culturale, ma anche infrastrutturale. Nel nostro caso si tratta di simboli completi, di simboli concreti, che noi ci ritroviamo mentre andiamo a fare la spesa o in altre intersezioni della vita quotidiana, come meri riferimenti dall’apparenza anodina. Infatti, nelle società complesse in cui viviamo, la mobilità e la vita quotidiana è inquadrata da testi, da scritture, e da denominazioni di luoghi e di strade. Questa rete colonizzata di denominazione è performativa, e produce senso comune senza che non si faccia nulla di specifico per attivare questa dipendenza, se non le nostre attività più banali. Per muoverci, per descrivere i territori che attraversiamo e viviamo, abbiamo bisogno di mappe o di riferimenti scritti.La vita quotidiana è plasmata da questa griglia di nomi, da questa infrastruttura scritturale, che caratterizza i contesti nei quali ci nuoviamo. Si tratta dunque di elementi organizzativi della nostra vita. Più l’urbanizzazione e l’urbanesimo si sviluppano, più la mobilità è guidata dai device automatici, maggiormente lo spazio è organizzato dal mapping rispetto alle pratiche di orientamento proprie dei percorsi a piedi, più le denominazioni rientrano con un’apparenza neutrale e si sovrappongono ai semplici spazi. Ci colonizzano la mente e ci suggeriscono una classificazione di cose importanti e di cose inesistenti o secondarie. Per riprendere un esempio già fatto, andiamo tutti a prendere un aperitivo in Piazza Yenne di fronte alla statua di Carlo Felice, all’angolo di Via Manno e di fronte al Corso Vittorio Emanuele. Il nostro focus è l’aperitivo, ma l’ecologia denominativa è (in questo caso) un ripasso generale della nostra subalternità ai Savoia: Yenne fu infatti un Viceré, Carlo Felice un Re e Viceré noto per i suoi massacri, Manno il fondatore della storia della Sardegna come storia destinata alla subalternità e all’attesa del Re salvatore, nonché segretario del re Carlo Felice e uno dei primi presidenti del Senato, Vittorio Emanuele II il primo Re d’Italia e l’ultimo di Sardegna. Cosa mutilano queste denominazioni? La storia della città, quella vera, il ricordo di una grande Chiesa gotica, dell’area di quello che fu per secoli il Mercato, il carattere orografico del territorio, sa Costa, e infine lo snodo fra le diverse Appendici e il culto di un santo. Diverse stratificazioni storiche, attività popolari, caratteri del territorio e del paesaggio, e quindi la nostra storia è mutilata e sotterrata sotto la monumentalizzazione dei gruppi dominanti e dei loro eroi, fra cui emergono i Savoia, i loro servi, e un Sardo particolarmente illustre, ma anche particolarmente asservito e lussuosamente ripagato per questo suo mettersi a disposizione dei padroni.

Queste denominazioni non sono infatti anodine

Denominare i luoghi e, come a Cagliari e in Sardegna, colonizzare le denominazioni ha l’effetto di monumentalizzare un dominio, un potere, ed è stato fatto proprio con quello scopo da chi ha sommerso la storia per erigere monumenti e per distorcere le memorie collettive. Non a caso, il potere adora i centri delle città e i suoi spazi più frequentati. Se una bambina vede le strade intitolate a fascisti, a cosiddetti eroi del risorgimento o del colonialismo italiano, ai membri di casa Savoia, tutti maschi, in modo ininterrotto come a Cagliari, tutte scritte rigorosamente in italiano, e una viuzza solamente dedicata a Eleonora d’Arborea, e qualche stradina di periferia con un nome in sardo, avrà maggiore facilità a considerare normale che la storia della Sardegna, la storia delle donne, e la sua appartenenza a questa discendenza non contino nulla, mentre i Garibaldi, le epopee dell’Irredentismo e i cesaribattisti, l’Italia “sublime patria nostra” e conquistatrice di colonie africane, e tutte queste belle cose – anche se tutte estranee alla sua storia di Sarda – siano cose superiori. Assorbe una gerarchia di cose, di lingue, di storie, di generi. Come bambina sarda, lì non c’è, è solo spettatrice, un essere secondario. Tutta la sua città le è estranea, la sua condizione è senza importanza. Meglio dimenticarla e assorbire quella dei discendenti contemporanei di quella lignée dominante, magari per imitazione.

Dunque, ognuno è libero di assumere la posizione che desidera in questo dibattito, ma è veramente fuori luogo affermare che rimettere in discussione i quadri sociali della memoria significhi combattere o voler annullare la storia. Significa, invece, combatterne le conseguenze nefaste.

Accardo A. e N. Gabriele (2011) Scegliere la patria. Classi dirigenti e Risorgimento in Sardegna, Roma, Donzelli.

Casula F. (2016) Carlo Felice e i tiranni sabaudi, Dolianova, Grafiche del Parteolla

De Certeau M. (2010) L’invenzione del quotidiano, Milano, Edizioni Lavoro (particolarmente i capp. VII, “Camminare per la città”, e IX, “Lo spazio come racconto”).

Denis J. e D. Pontille (2011) Nel mondo della segnaletica. L’ecologia grafica degli spazi del metrò, Trento, Professionaldreamers (ed. orig. Petite sociologie de la signalétique, Paris, Presses des Mines 2010).

Halbwachs M. (1925) Les cadres sociaux de la mémoire, Paris, Librairie Félix Alcan, (tr. it.: I quadri sociali della memoria, Ipermedium libri, 2001)

Ferretti M. (1993) La memoria mutilata. La Russia ricorda, Milano, Il Corbaccio.

Sotgiu G.(1984) Storia della Sardegna sabauda. 1720-1847. Roma-Bari, Laterza. Riedito da Il Maestrale, Nuoro, nel 2018.

https://www.change.org/p/spostiamo-la-statua-di-carlo-felice-un-pretesto-per-studiare-la-storia-della-sardegna

Un commento

  • francesco casula

    Magistrale riflessione di Alessandro Mongili
    Custu meledu est de una sabidoria e cumpetentzia, istorica e antropologica istremenada. Tocat de lu leghere cun atentzione. Giovanos intelletuales, liberos abistos e scipidos, comente a Lisandru Mongili, podent esser un’isperu mannu pro sa Sardigna intrea.
    S’unica precisatzione chi mi tocat de fagher est chi sa “Petitzione” pro nch’istesiare s’istatua de Carlo Felice est de su professore Zusepe Melis Giordano chi est istau peri su promotore de su Comitau “Spostiamo la statua di Carlo Felice”.

Rispondi a francesco casula Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *