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Sardi «negri» d’Italia

Foto di Rossella Fadda

di Cristiano Sabino

In questi giorni i sardi stanno avendo un assaggio di cosa significa essere i «negri» d’Italia. Vale a dire stiamo assaporando un po’ di quel sistematico ed ininterrotto flusso di menzogne, credenze, luoghi comuni e stigmi che quotidianamente tartassano tutte le popolazioni subalterne extra europee e extra occidentali, specie se povere e non asservite e in particolare i soggetti migranti.

I sardi – che sono alla frontiera concettuale tra il «dentro» e il «fuori» rispetto all’immagine di una comunità moderna e la cui collocazione nella civiltà occidentale e nello spazio statale italiano risulta problematica e subalterna sotto molteplici aspetti – subiscono periodicamente campagne di ghettizzazione, di marginalizzazione, di martellamento ideologico che presentano diverse analogie con le campagne d’infamia che vivono tutti i soggetti subalterni rispetto all’identità dei popoli europei, cioè gli arabi, gli africani, i musulmani, i cinesi, gli slavi, ecc.

Ne parlava già Gramsci cento anni fa quando spiegava l’ideologia della “palla al piede” secondo cui la Sardegna (e poi per estensione la Sicilia e il Mezzogiorno) sono un peso morto per il nord ricco e civilizzato. Ideologia che, tanto per inciso, era già da allora veicolata anche dalla sinistra, dal partito socialista, dagli intellettuali progressisti che consideravano tutte quelle realtà distanti dal modello della modernità del nord Italia e nord Europa come responsabili della propria arretratezza e naturalmente inclini al vizio, al crimine, al malessere sociale.

La pandemia da Covid-19– e la relativa psicosi – ha fatto emergere molti aspetti brutali della collocazione dei sardi a cavallo tra dentro e fuori, tra il «noi» e il «loro», tra il «moderno» e il «barbarico», tra ciò che si muove organicamente al centro e ciò che invece è bandito e confinato nella periferia.

Conosciamo bene i titoli dei giornali della destra xenofoba che periodicamente bersagliano i subalterni (arabi, africani, musulmani, slavi, ecc.). Negli ultimi giorni, del tutto analogamente, la Sardegna è stata descritta dai principali quotidiani italiani con toni assai simili che ricordano il “portano le malattie” di alcuni quotidiani che fanno della battaglia razziale la propria ragione ideologica ed economica.

Il Corriere della Sara, tra il 19 e il 20 agosto titolava così: «Coronavirus in Sardegna, da isola Covid-free al rischio “chiusura”: i contagi tra feste e vacanze» e annunciava che «in poche settimane la Sardegna da Covid Free a regione che diffonde il contagio in mezza Italia e rischia, da indiscrezioni ministeriali, di essere isolata». Sempre nello stesso articolo si notava che il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, chiedeva «misure che evitino l’esportazione dall’isola del Covid 19».

Se analizziamo il linguaggio utilizzato, possiamo trarre delle note precise sull’effetto «subalternità» implicito nella descrizione. Attorno al nucleo centrale del concetto «Sardegna» gli autori dell’articolo, Alberto Pinna e Clarida Salvatori, fanno ruotare, come attributi ad esso inesorabilmente legati, altri concetti quali «esportare il virus», «da Covid Free a regione che diffonde il contagio», «esportazione dall’isola del Covid-19» ecc. Il virus sta in Sardegna, la minaccia arriva dall’isola e chi sta fuori, chi sta al di là, deve tutelarsi alzando una cortina di ferro, filtrando, ponendo un argine. Siamo insomma al «portano le malattie» con altri termini, ma il concetto è quello. 

Domenica 23 agosto il quotidiano liberal La Repubblica apriva addirittura in prima pagina con un titolo altrettanto brutale: «Virus, la Sardegna spaventa». Il sottotitolo chiarisce bene le cose: «Emergenza covid per i rientri a casa di 50mila a Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli. Contagi ancora su. Il Lazio è un caso. Governatori divisi su stop alla mobilità. Zingaretti: “Indecente scaricare responsabilità su altri”. Speranza: “Non potevamo impedire l’estate. E non chiuderemo le regioni”».

Se dovessimo fare una semplice analisi logica dovremmo chiederci qual è il soggetto, cioè chi o cosa è che sostiene l’azione di spaventare. La risposta è chiara: non è il virus a spaventare, ma è la Sardegna, pur se inserita nel contesto semantico del «virus». Siamo anche qui sul piano del «portano le malattie».

Ma le cose stanno davvero così? Cioè la Sardegna è realmente un ricettacolo di contagi tale da mettere in pericolo chicchessia?

Alla data del 30 luglio, quando ancora resort e locali in della Sardegna non erano stati presi d’assalto dai turisti (italiani o no importa poco) in Sardegna si segnalavano dai 0 ai 3 contagi al giorno. La fondazione Gimbe invece segnalava: «Quale indicatore della diffusione del contagio – abbiamo rivalutato la distribuzione geografica dei 12.609 casi attivi al 28 luglio, i cosiddetti casi ‘attualmente positivi secondo la denominazione della protezione civile, aumentati di 361 unità rispetto alla settimana precedente. Il 53% si concentra in Lombardia (6.678); un ulteriore 37,4% si distribuisce tra Emilia-Romagna (1.459), Lazio (942), Piemonte (801), Veneto (754)».

Non abbiamo letto all’epoca aperture di giornale che allarmassero sul pericolo di una diffusione del contagio, nelle edicole di Cagliari non venivano vendute copie della Nuova Sardegna e dell’Unione Sarda riportanti titoli come «Lombardia, bomba virale» o «Virus, il Veneto spaventa i sardi».

Allo stesso tempo tutte le richieste da parte delle regioni a basso contagio di una riapertura ragionata e regionalizzata sono state ignorate dal Governo e tacciate dalla medesima stampa italiana come portatrici di una visione egoistica e anticostituzionale. Eclatante è stato il caso della Sardegna. Al netto delle gravi e indiscutibili responsabilità della Giunta Solinas e della pessima gestione sanitaria nel periodo del lockdown, tutte le richieste della Regione Autonoma di filtrare gli arrivi sono state rispedite al mittente e oggetto di una campagna scandalistica di basso profilo.

Dopo averci costretti a tenere i collegamenti aperti, dopo averci imposto di accogliere migliaia di cittadini del nord, spesso proprietari di seconde case, in fuga dopo aver letto le indiscrezioni sull’imminente allargamento delle zone rosse, dopo averci imposto un lockdown indifferenziato come fossimo Milano o Bergamo, dopo averci imposto una apertura altrettanto indistinta senza neppure possibilità di fare controlli o di filtrare in qualche modo,  oggi gli intellettuali e i rappresentanti politici mainstream hanno il coraggio di dipingere la Sardegna come una “bomba virale” che mette a rischio la salute degli italiani.

Ciò nonostante i contagi siano avvenuti prevalentemente tra italiani, prevalentemente in località turistiche di lusso a cui è stato concesso di tutto e ciò nonostante ai sardi sia stato impedito di celebrare persino le proprie feste popolari.

Oggi i sardi sono i «negri» d’Italia, ovvero gli «arabi», i «musulmani», i «terroristi», i «banditi», gli «untori», gli «ebrei» d’Italia. I sardi sono i subalterni, i «nemici», i «lebbrosi», i «rom», i «sinti», i «black block», gli «insurrezionalisti», gli «appestati».

É l’ideologia della «palla al piede» applicata al tempo del Covid-19. È l’ideologia che spesso, una parte della politica sarda, cerca di veicolare a sua volta nei confronti dei migranti sui barchini, come ha fatto pateticamente prima che scoppiasse la bolla giornalistica della «Sardegna bomba virale» il presidente della Regione Autonoma Solinas, alla rincorsa delle continue ridicole sortite del responsabile della Lega in Sardegna Eugenio Zoffili.

É l’ideologia di chi formalmente ti riconosce umano e uguale a lui («non sono razzista ma»; «i sardi sono italiani ma») però alla fine esprime in tutta la sua bassezza il diritto di essere padrone. La Sardegna (con i sardi dentro) è loro.

O forse, la vera tragedia teoretica dei sardi è di non essere né da una parte né dall’altra, schiacciati da questa continua aspirazione al dover essere «italiani», «occidentali», «civili», «moderni», «sviluppati», alla continua ricerca di un consenso, di un riconoscimento – seppure subalterno – che non arriva mai, che non è mai pienamente meritato e che alla fine ci fa mal vivere in questa condizione creola di subalternità, in questo stato ibrido di «sarditudine» subalterna che ci impedisce di integrarci completamente con l’«altro da sé» rappresentato dalla civiltà oltremare ad oriente ma, al tempo stesso, ci frena dal ribellarci, dando piena vita e realtà razionale all’«istinto di ribellione» di cui parlava Gramsci a proposito della nascita e dell’affermazione del fenomeno sardista.

Per questa ragione, per capire meglio la nostra condizione creola di «quasi italiani» – o meglio di «sub-italiani» -che periodicamente ci viene dolorosamente ricordata, quella di questi giorni è una lezione di cui dobbiamo fare tesoro.


Cristiano Sabino nasce a Sassari nel 1979. È tra i fondatori dell’organizzazione A Manca pro s´Indipendentzia, nella quale ricoprirà vari incarichi fino a diventarne portavoce. Insegna filosofia e storia a Sassari. Nel 2017 esordisce col suo primo libro edito per Condaghes Compagno T. Lettere a un comunista sardo, giunto alla sua seconda edizione.

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