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L’enigma sardo: un tentativo di spiegazione

di Omar Onnis

– tempo di lettura: 13 minuti –

La percezione di una diversità

Alcuni anni fa, in una puntata della nota trasmissione “Fahrenheit”, di Radio3 RAI, il conduttore dovette accennare al fenomeno della cosiddetta nouvelle vague letteraria sarda; non trovando una terminologia migliore, parlò di “regionalismo forte”. Non era un giudizio di valore, bensì pura difficoltà lessicale. Quando, tra 2018 e 2019, il film di Paolo Zucca L’uomo che comprò la Luna cominciò ad avere un sorprendente successo in Italia, uno degli aggettivi più usati per cercare di renderne il senso complessivo fu “etnico” (“commedia etnica” fu la definizione di Mymovies: www.mymovies.it). L’aggettivazione riservata ancora oggi alla Sardegna, nella comunicazione dei mass media ma anche nelle pubblicazioni più meditate, risuona di solito di termini come “misteriosa”, “arcaica”, “esotica”, “tradizionale”. È una classificazione che potremmo definire “orientalista”, rifacendoci non solo a Edward Said (Said 2002) ma anche al padre Antonio Bresciani del 1850 (Bresciani 2002): la Sardegna è stata pioniera, in questo senso. Il fenomeno è complesso. Racchiude in sé il nostro mito identitario subalterno (Onnis 2013), ossia la caratteristica narrazione coloniale che giustifica e certifica in termini culturali e teorici rapporti di forza e forme di relazione che sono in realtà di indole materiale, economica e politica (Pili 2021); ma anche l’emergere di una diversità difficile da spiegare e raccontare. Una diversità che implica necessariamente due termini di paragone: uno è la Sardegna, e l’altro? Di norma, e in modo irriflesso, il secondo termine di paragone, quello principale, in quanto “centro”, è l’Italia. Di cui la Sardegna risulta dunque “periferia”. Una periferia, però, poco malleabile. Persino dove non ci sia alcuna intenzione malevola, o paternalistica, per gli italiani è difficile esprimere compiutamente l’irriducibilità della Sardegna a categorie ordinarie. Domina lo straordinario. E, con lo straordinario e la sua inesprimibilità, l’approssimazione. Altre volte semplicemente si rifiuta di ammettere una distanza che resta problematica. Capita spesso che a una rivendicazione di diversità da parte di qualche sardo, magari in uno scambio di convenevoli conviviali o nei commenti su un social medium, l’interlocutore opponga l’argomento della diversità interna dell’Italia: i sardi sono diversi dagli altri così come sono diversi gli umbri, i pugliesi, i piemontesi, ecc. Tutti diversi, nessuno davvero diverso. A questo genere di argomentazioni di solito non si sa cosa rispondere. E tuttavia permane la sensazione di una fallacia. Davvero la diversità sarda è equiparabile o è addirittura la stessa cosa delle diversità cantonali tra le varie aree storiche italiane? È un parallelismo che, a ben guardare, non regge a un esame approfondito. Applicarlo conduce ad esiti paradossali. Sulla sua base, si potrebbe costruire un continuum unitario tra l’Italia e qualsiasi altra porzione del pianeta, passando da una all’altra delle regioni contigue con le loro diversità relative e parziali. Si potrebbe anche scoprire che esistono somiglianze profonde tra regioni appartenenti a stati diversi, evidentemente non così fondati su comunanza “d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” (A. Manzoni, Marzo 1821). Insomma, è una spiegazione che non spiega nulla o che al limite mette in crisi i fondamenti nazionalisti degli stati contemporanei. Il problema è che la Sardegna è difficilmente inquadrabile, sic et simpliciter, come porzione oltremarina dell’Italia, se si prendono sul serio i criteri con cui si identifica storicamente e culturalmente l’Italia medesima. È la somma di tante diversità che fa della Sardegna un luogo così alieno e “misterioso”. E il mistero sussiste solo perché si misurano le sue caratteristiche storiche, socio-economiche e culturali secondo un canone a cui sono estranee. Ma a cosa è dovuta questa diversità e in cosa consiste davvero?

Costante resistenziale o qualcos’altro?

La Sardegna è un luogo delimitato da una geografia intransigente. Non c’è verso di ignorarla, se non a prezzo di mistificazioni. È anche una terra abitata continuativamente da millenni. Per questo è anche un luogo su cui si è sedimentata una storia umana peculiare e di lunghissima durata. La distanza geografica – evocata a volte giusto come spiegazione di comodo – e la continuità di popolamento non sono mai davvero tenute in considerazione come fattori storici decisivi. Riguardo alla collocazione geografica va precisata una cosa: stiamo parlando di distanze davvero minime, rispetto alla scala del mondo, e di un’area del pianeta tra le più antropizzate e per più tempo. Non c’è mai stato momento, dalla fine dell’ultimo periodo glaciale, in cui la Sardegna sia stata davvero isolata. Almeno dal Neolitico e poi sempre con maggiore intensità, sia pure con le periodiche fluttuazioni del caso, tutto quello che è successo nel Mediterraneo e in Europa ha avuto un riverbero, diretto o indiretto, in Sardegna. Un flusso incessante in entrata, ma anche in uscita. Il fatto di essere un po’ più lontana si è tradotto non in un fattore quantitativo ma in un fattore temporale: l’isola, in tutte le epoche, ha avuto più tempo per assimilare, metabolizzare e far proprio tutto ciò che l’ha toccata. Non c’è niente, di propriamente sardo, che non sia anche forestiero. La specificità e la diversità sarda, in questo senso, può essere peculiare, ma non è affatto misteriosa. La Sardegna è dunque un luogo in cui si è addensata e accumulata una forma di civilizzazione umana che ha assunto nel tempo sue proprie caratteristiche, all’interno di uno spazio storico-geografico molto interconnesso come quello mediterraneo ed europeo. Fernand Braudel offre nei suoi scritti un’accezione di “civiltà” che non corrisponde esattamente a quella impiegata comunemente in ambito antropologico e storico (Braudel 1970, 1986). È un’accezione plurale e dinamica. Qualsiasi forma di cultura umana sufficientemente complessa e stratificata nel tempo, che abbia prodotto non solo grandi esiti spettacolari in campo artistico, letterario, architettonico, ma prima di tutto forme peculiari di linguaggio, di socializzazione, di usi, una sua cucina, un suo artigianato, una sua cultura popolare, può definirsi una civiltà. Era una civiltà di lunga durata quella greca antica. Era una civiltà quella della Spagna musulmana. Era una civiltà quella degli ebrei, nella loro diaspora, caso singolare di “nazione” senza un suo territorio (Braudel, 1986). Sono esistite una civiltà cristiana, nell’Europa del Medioevo e dell’Età moderna, e una contemporanea e contrapposta, ma anche contigua e in costante mescolanza, civiltà dell’islam, nella sponda sud e orientale del Mediterraneo. Quel che si è formato in Sardegna da che vi si sono stanziate comunità stabili di homo sapiens è appunto una forma di civiltà specifica. Poco importa il livello meramente evenemenziale di questa lunghissima storia: non si può identificare questa civiltà solo attraverso le vicende politiche susseguitesi nel corso dei secoli. E però anche attraverso questo livello superficiale dei fatti umani è dato di scorgere a volte chiaramente, a volte meno, l’irrompere sulla scena di un sostrato mai scomparso e mai sterilizzato. È anche a questo che pensava probabilmente Giovanni Lilliu quando teorizzò la “costante resistenziale” (Lilliu 2002). Il suo errore non è stato nell’intuizione, ma nella sua formulazione e nella cornice impiegata. Il suo restava uno sguardo ancora subalterno, da sconfitto che rivendica una propria dignità, magari cercandola in un lontano passato di gloria e grandezza. Ma non è mai esistita davvero alcuna costante resistenziale, in Sardegna. La civiltà umana peculiare dell’isola ha sempre instaurato una dialettica più o meno vivace e attiva con le altre civiltà incontrate. A volte accogliendole, a volte difendendosi da esse, ma mai senza forme di scambio e contaminazione. Insomma, costante sì, profonda e in lento movimento, ma non resistenziale. In questo senso si possono anche leggere le varie dominazioni straniere con cui di norma viene scandita la storia sarda. Che non sono mai state uguali una all’altra, né per influenza, né per durata, né per lasciti.

Incontro-scontro di civiltà: lo snodo contemporaneo

A lungo la dialettica tra civilizzazione sarda e apporti esterni è stata bidirezionale. Anche nei periodi in cui sembrerebbe più evidente una dominazione esterna, economica, politica, culturale, quel che emerge storicamente è un adattamento e un assestamento di alcune forme esteriori e di alcune pratiche, ma sempre dentro un processo di “traduzione”. Ciò è visibile in tutte le epoche. In epoca contemporanea, l’assimilazione dell’isola nell’ambito italiano è stata lenta, contrastata, mai davvero popolare, se non molto tardivamente, ossia sostanzialmente alla vigilia immediata del nostro presente. Ed è ancora incompiuta. Basti pensare alla distanza che ancora caratterizzava Sardegna e Italia nell’Ottocento e ancora ai primi del Novecento, come se l’isola procedesse ancora su un suo binario storico autonomo, nonostante l’interferenza e la parziale sovrapposizione di un altro percorso. Facciamo un esempio in ambito culturale. Un fattore di peso della cultura popolare italiana di quel periodo, a tratti anche politicamente rilevante, fu l’opera. Vari autori diedero vita a un corpus musicale e teatrale che formò la cultura diffusa di larghissimi strati della popolazione, a partire dalla borghesia urbana, ma senza limitarsi ad essa, contribuendo alla stessa ideologia nazionale su cui si fondò il Risorgimento (Dorsi-Rausa 2000; Pedrotti 2019; Banti 2011). L’opera ebbe per l’Italia, paese eterogeneo e largamente analfabeta (De Mauro 1970), la stessa funzione che il romanzo ebbe per la Francia. Nel frattempo la Sardegna profonda, piuttosto indifferente a ciò che accadeva di là dal Mar Tirreno, conosceva la diffusione e i successi della poesia e della musica popolare, con l’instaurarsi di un vero e proprio show business, specie nell’ambito della poesia a bolu (improvvisata) e dei grandi suonatori di launeddas o dei canti a chitarra. Un gusto raffinatosi nel tempo animava una variegata produzione, che andava senza soluzione di continuità dalle esibizioni estemporanee nelle cantine, alle grandi feste di paese fino alla pubblicazione in libri di ampia diffusione. Un fenomeno di massa, con un suo professionismo affermato. Questo a dispetto del grado di analfabetismo, che nell’isola, ancora al principio del Novecento, relegava i sardi all’ultimo posto nel Regno d’Italia (Berlinguer-Mattone 1998). Analfabetismo in italiano, chiaramente, ossia la sola lingua dell’istruzione, della comunicazione pubblica ufficiale, del potere. Il parallelo tra la rilevanza sociale e culturale dell’opera in Italia e delle gare poetiche in Sardegna non è un azzardata iperbole, ma la constatazione di due fenomeni contemporanei diversi, che rispondevano in larga misura a una domanda analoga e avevano una funzione simile. Il rilievo che si può fare è che l’opera in Italia accomunava sostanzialmente tutti gli strati sociali, soprattutto urbani, mentre la poesia e le grandi manifestazioni popolari in Sardegna erano fruite e sentite come proprie soprattutto dai ceti appunto popolari e dalle comunità rurali, mentre le élite, specie cittadine, fruivano di preferenza contenuti culturali veicolati in lingua italiana e a loro volta ne producevano di propri. La questione linguistica in Sardegna è stata anche, se non soprattutto, una questione di classe. Ad ogni modo, in questi ambiti emerge prepotente, da un lato e dall’altro del Tirreno, tutto il portato di una storia differente, che dà esiti peculiari, non necessariamente da porre in un rapporto gerarchico tra loro. È la storia, nel suo dispiegarsi materiale, che può condurre alla sconfitta di una civiltà ad opera di un’altra. La subordinazione della Sardegna all’ambito economico e politico italiano, frutto di svolte storiche occasionali poi divenute decisive, ha avuto un costo culturale molto alto: la minorizzazione, la folklorizzazione, all’occorrenza – come sotto il fascismo – la repressione esplicita della cultura popolare autoctona. Che stava già trovando il modo di rispondere alle sollecitazioni della contemporaneità. Opere come Su Triunfu d’Eleonora d’Arborea di Franciscu Dore (1870-1), o Sa mundana cummèdia di Bore Poddighe (1917-22), vero best seller sardo se mai ce n’è stato uno, sono inspiegabili senza il contesto in cui furono concepite e senza un’ampia domanda che le richiedesse. Ma sono rimaste relegate all’esterno di qualsiasi studio sistematico sui processi storici del loro tempo, in quanto espressione di una cultura considerata minoritaria. Minoritaria, però, solo nel contesto italiano, non in Sardegna, dove invece tali prodotti culturali esprimevano un sentire largamente diffuso, reso nella lingua allora ancora più usata nell’isola. Ma la stessa produzione letteraria in italiano, con l’esempio più significativo di Grazia Deledda, rispondeva a un’esigenza di integrazione che già di per sé era una forma di ibridazione, oltre a rivelare col suo solo porsi la propria natura problematica. C’è voluto del bello e del buono per mortificare e marginalizzare la naturale pulsione ad esprimersi di una civilizzazione umana di lungo corso, fino a farne una cultura storicamente sconfitta, residuale, fino a farne folklore. Nella questione della lingua e di tutto ciò che essa implica è codificato il generale processo di espropriazione storica subita dalla Sardegna negli ultimi due secoli, nell’ultimo in particolare. Ma è riduttivo porre la questione in termini troppo schematici, come appunto faceva la tesi della “costante resistenziale”, e vediamo subito perché.

Civiltà e identità della Sardegna di oggi

L’identità sarda contemporanea è un’identità fraintesa e subalterna, ma è scorretto collocarla dentro una coppia oppositiva il cui secondo termine è un’identità italiana dominante e totalizzante, da cui quella sarda può solo cercare di difendersi. Tale contrapposizione si basa sull’assunto dell’inferiorità. Se invece si accetta l’ipotesi di una civiltà sarda dispiegata nei secoli e oggi in contatto problematico con quella italiana, ecco che si può ristabilire un equilibrio dinamico tra le due, pur senza ignorare i processi di soggezione e acculturazione ancora in atto. In questo senso, torna utile come strumento analitico, se non proprio come cornice descrittiva, la teoria di Homi Bhabha del “terzo spazio” (Bhabha, 1997). La relazione tra cultura dominante e cultura dominata non implica necessariamente una ricezione solo passiva da parte dei dominati, ma anche innesti e riformulazioni dinamiche. È quello che abbiamo visto succedere in Sardegna per i lunghi secoli della sua storia. Ma questa impostazione può dar conto anche della realtà attuale? Per quanto sia evidente la natura sbilanciata ed impari della relazione tra Sardegna e Italia, è altrettanto evidente che l’egemonia culturale italiana non è riuscita a cancellare la stratificazione storica di cui è fatta la civiltà sarda. Perché è una fonte di identificazione troppo profonda e ricca per essere eliminata. L’apporto italiano è uno dei tanti accolti nei secoli. Solo, più intenso, dati i mezzi a disposizione, e più immediatamente evidente, dato il minor tempo disponibile per l’assimilazione. In ogni caso, gli elementi di cultura italiana che oggi fanno parte della vita di qualsiasi persona sarda non ne mutano l’appartenenza profonda, nemmeno nei casi in cui si sia verificata una totale sostituzione linguistica. La scissione identitaria, tra una sardità sempre rivendicata e un’italianità sempre in discussione, che a volte provoca dolore, a volte rimozione, a volte ostilità, potrebbe pacificarsi nell’accoglimento di un processo che è molto più dialettico e meticcio di quanto si sostenga. Senza traumi o conflitti. Fare di questo fenomeno un tema di lotta politica è sbagliato. Perché non c’è un nesso diretto e bi-univoco tra identità profonda e autodeterminazione, né nel senso di farne un’aspirazione storica né nel senso di rifiutarla totalmente. Esistono persone sarde che si opporrebbero con ogni mezzo alla sottrazione della loro  identificazione sarda, ma non sono affatto sensibili al tema dell’indipendenza e nemmeno dell’autonomia. Vi sono altresì militanti indipendentisti a cui il discorso identitario non importa affatto. Proprio perché non c’è una coincidenza stretta tra i due discorsi. Ed è questo il motivo per cui tante analisi basate su identità sarda versus identità italiana, intesa come opposizione schematica, lasciano il tempo che trovano e non risultano mai convincenti. Non spiegano nulla, anzi, complicano inestricabilmente i ragionamenti, finendo per farli arenare su essenzialismi e astrazioni a-storiche. Ci si incarta in diatribe su cosa sia la sardità, su cosa sia o no veramente sardo, e si perde di vista la realtà. Il problema vero nasce laddove la rimozione storica e linguistica abbia operato così a fondo da aver generato un’alienazione, un totale fraintendimento circa la nostra ubicazione nel tempo e nello spazio. È lì che va cercata la radice della debilitazione culturale e morale, quindi anche socio-economica e politica, che ci affligge come comunità storica. È nell’ignoranza di sé, nel vivere dentro una finzione alienante, un “come se” causa di dissociazione cognitiva. È nell’accettare come veri e validi gli stereotipi del nostro mito identitario posticcio, la riduzione a enigma inesplicabile della nostra stessa esistenza nella storia. Ma una volta recuperata una condizione pacificata verso la nostra storia e la nostra civilizzazione, né vittimista né megalomane, niente ci proibisce di accogliere in termini attivi le forme di ibridazione culturale a cui il mondo di oggi ci espone più intensamente che mai, e di farne una ricchezza e una fonte di emancipazione. La battaglia culturale e la stessa lotta politica possono procedere meglio e più proficuamente con lo sguardo rivolto in avanti, piuttosto che attardandosi a contemplare lo spettacolo decadente di una rappresentazione identitaria sterile e paralizzante, per lo più fittizia. La Sardegna non scomparirà per questo, né scomparirà la civilizzazione umana espressa nei secoli da questo lembo di terraferma circondato dal mare.

Bibliografia

Banti, A.M., Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011

Berlinguer, L. – Mattone, A. (a cura di), Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi. XIV: La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998

Bhabha, H., Nazioni e narrazioni, Milano, Meltemi, 1997

Braudel, F., Il mondo attuale, Torino, Einaudi, 1970

Braudel, F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1986

Bresciani, A. (a cura di B. Caltagirone), Dei costumi dell’isola di Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2002

De Mauro, T., Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1970

Dore, F., Su triunfu d’Eleonora d’Arborea, Cagliari, 3T, 1980 (ristampa anastatica dell’edizione del 1910)

Dorsi,F. – Rausa, G., Storia dell’opera italiana, Milano, B. Mondadori, 2000

Lilliu, G. (a cura di A. Mattone), La costante resistenziale sarda, Nuoro, Ilisso, 2002

Onnis, O., Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, Cagliari, Arkadia, 2013

Pedrotti, R., Storia dell’opera lirica. Un immenso orizzonte. Dalle origini ai giorni nostri, Odoya, Città di Castello, 2019

Pili, A., Identità sarda e interventi economici, in: Ghisu, S. – Mongili, A. (a cura di), Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, Milano, Meltemi, 2021

Poddighe, S., Sa mundana cummédia, Sestu, Domus de Janas, 2009

Said, E., Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 2002

5 commenti

  • Vittorio Sechi

    Tutto ciò che aiuta a vitaliziare il dibattito è benvenuto, anche quando lo stimolo proviene da argomentazioni sostanzialmente errate.
    A me pare che l’estensore dell’articolo parta da una premessa sbagliata ed approdi a risultati forzati dopo aver sviluppato un ragionamento in buona misura falsato dalla premessa e da un’impostazione eccessivamente ideologizzata.
    È sicuro, per esempio, che le aggettivazioni attribuite al mondo culturale sardo siano esclusive?
    “Regionalismo forte”, “commedia etnica”, “mistero, arcaica, esotica e tradizionale” non sono aggettivazioni riservate esclusivamente alla Sardegna, ma coinvolgono tutto il mondo – in particolare quello agro pastorale – che si rifà ad una cultura a forte connotazione etico-regionale, di antica tradizione ed i cui contenuti siano peculiari e radicati nel profondo dei tempi. Basti pensare alle tradizioni pugliesi e ai tarantolati, ai benandanti del nord Italia, al mistero che avvolge l’esotica tradizione etrusca. La Sardegna in ciò non è stata certamente un’apripista, come sostenuto da Onnis. Ed in quest’aggettivazione non è rilevabile alcuna”caratteristica narrazione coloniale”, perlomeno non è qui che si reperiscono le tracce storiche della asservimento coloniale dell’isola. Si tratta solo di una modalità, forse errata, di identificazione di un tratto caratteristico di una civiltà peculiare, non di una diminutio.
    Ogni peculiarità o singolarità è tale in quanto e perché vien posta in relazione con qualcos’altro, nella fattispecie con “l’Italia”, il termine di paragone più prossimo ed immediato. In assenza di termine di paragone, assurdo sarebbe definire qualcosa “singolare” o “peculiare”. Strano sarebbe stato porla in relazione con la Grecia classica, baipassando il mondo latino. In questa evenienza altro che “periferia” ne sarebbe venuta fuori.
    Ciò che noi spesso amiamo definire “diverso” è, in effetti, “peculiare”, cioè che “è proprio, tipico, particolare e caratteristico di una determinata persona o cosa”, e peculiare della Sardegna è appunto l’intera tradizione sarda. Ma qui si sfiora la tautologia.
    In effetti, anche l’Onnis, nel prosieguo, approda alla medesima considerazione, ritenendo che sia tanto peculiare e radicata “…che l’egemonia culturale italiana non è riuscita a cancellare…” perché “la stratificazione storica di cui è fatta la civiltà sarda.” risulta essere resiliente ed “è una fonte di identificazione troppo profonda e ricca per essere eliminata”. Che è in soldoni quanto sostenuto a più riprese dal professor Lilliu, che l’Onnis contesta. Troppo spesso ci si infervora a dimostrare qualcosa facendo perno sul linguaggio, cioè sul modo decisorio (dall’etimo) che il linguaggio possiede. Nell’infervorarsi, spesso mossi da ideologismi obnubilanti, si perde di vista il vero portato di senso del messaggio posto sotto esame e si sviluppa un ragionamento fondamentalmente erroneo che assume un senso esclusivamente lessicale. Quando l’Onnis contesta al Lilliu la sua espressione di “costante resistenziale” commette proprio questo errore. Forse se Lilliu l’avesse definita “costante resilenziale” l’Onnis si sarebbe accorto che sostenere che la civiltà sarda possiede una “stratificazione storica” ineliminabile, almeno nel suo nucleo essenziale, è proprio ciò che il Lilliu ha inteso sostenere… ma tant’è.
    In sintesi e per non allungare troppo il brodo, credo che l’intervento di Onnis, oltre a non aggiungere nulla di nuovo al dibattito sulla specificità sarda e sulle ragioni della sua subordinazione storica, contribuisca a creare solo confusione, non individuando alcun elemento concreto che getti luce e ci porti a ragionare.

    P.S.: spero che almeno qui l’autore eviti di cancellare commenti non plaudenti.

  • Paolo Serra

    Analisi perfetta di questo mondo sardo. Da discutere, come tutti gli approcci che tentano una riflessione profonda.

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