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Il Covid, il neocentralismo e la rimozione di Gramsci

– tempo di lettura: 9 minuti –

di Cristiano Sabino

«Porre fine al regionalismo» è veramente ragionevole?

Il tappo l’ha tolto Angelo d’Orsi sul Manifesto, quotidiano comunista, con un articolo dal titolo che è tutto un programma: La ragionevole follia di mettere fine al regionalismo[1].
La tesi di d’Orsi fondamentalmente ripropone una vecchia tentazione della sinistra italiana e cioè che bisogna centralizzare tutto, perché “Stato” è sinonimo di “pubblico” e “pubblico” è sinonimo di fase preparatoria ad un’economia pianificata o quantomeno ad un welfare radicale.
Il ragionamento di d’Orsi, in buona sostanza, si articola in due passaggi: 1) i Costituenti sbagliarono a inserire nell’ordinamento della Repubblica l’ente Regione, perché le Regioni sono «creazioni astratte, prive di un sostrato culturale e di un fondamento storico» e «si sono rivelate semplicemente centri di distribuzione e distruzione di risorse, senza produrre alcun valore aggiunto alla macchina statale»; 2) bisogna «porre fine al cosiddetto “regionalismo”, alla destrutturazione della Repubblica, alla distruzione della stessa unità nazionale».
Strane opinioni da parte dell’autore della recente e gettonata biografia gramsciana Gramsci. Una nuova biografia[2], visto che il comunista sardo sosteneva le ragioni popolari del sardismo e – nella Lettera per la fondazione dell’Unità – parlava esplicitamente del progetto della «Repubblica federale degli operai e contadini»[3].
A dire il vero non era una posizione abbracciata solo da Gramsci. Le Tesi di Colonia del Partito Comunista d’Italia del 1931 sostenevano il diritto all’autodeterminazione nazionale e la necessità di veicolare le spinte popolari per l’autogoverno di tutti quei territori che avevano subito i costi del processo di unificazione statale, fino ad immaginare la «costituzione di repubbliche socialiste e soviettiste del Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna»[4].

Di tutto questo dibattito non si trova oramai alcuna traccia nelle elaborazioni degli intellettuali progressisti e l’articolo di d’Orsi rappresenta bene la base della nuova ideologia di ciò che rimane del marxismo o del post-marxismo, ormai allo sbando[5]: cercare nel centralismo statalista un argomento per non sparire dalla scena. A suggellare il neocentralismo interviene anche un’accorata intervista di Luciano Canfora su Il Riformista. Qui si evoca addirittura il «rischio spaventoso dell’ordinamento regionale» e si stigmatizza «la follia costituzionale di cui siamo vittime»[6], profilando un quadro secondo cui le Regioni sono il mare perfetto in cui nuota la mafia e la criminalità organizzata. L’esito politico di questa convinzione non può che essere la svolta centralista dello Stato, perché il centralismo «è l’unica via per rendere tutti uguali, sempre che il concetto di uguaglianza ci piaccia». Anche Canfora bolla le Regioni come «suddivisioni astratte» senza fare alcun distinguo e senza entrare minimamente nel merito delle Regioni a Statuto speciale, come per esempio la Sardegna e la Sicilia.

Regionalismo = inefficienza e corruzione?

Il ragionamento che governa questa nuova canea antiregionalista, statalista e centralista è abbastanza meccanicistico e si alimenta fondamentalmente con due tesi: la (giusta) battaglia contro la cosiddetta autonomia differenziata, proposta dai governatori delle ricche regioni del nord (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) e la pandemia da Covid-19.

Gianfranco Viesti (docente di economia all’Università di Bari) ha definito questo fenomeno “secessione dei ricchi”[7], definizione che è subito entrata in circolo nel dibattito progressista, rinfocolando le antiche paure contro il secessionismo leghista e le mai spente tentazioni di una versione “di sinistra” del centralismo dal pugno di ferro. Siamo alla notte dove tutte le vacche sono nere! Il progetto di accaparramento delle risorse pubbliche da parte delle Regioni ricche del nord viene confuso con il regionalismo tout court e la necessità di rivendicare i servizi pubblici viene identificata con un modello centralista di Stato.
Per quanto riguarda la pandemia invece, i neocentralisti sostengono, in estrema sintesi, come essa abbia messo a nudo la fragilità del decentramento politico e la necessità di un ritorno alla gestione verticistica di tutte le risorse disponibili, al fine di una loro messa a frutto razionale, pubblica e controllata.

Il nesso Pandemia e bisogno di centralismo costituisce per esempio il focus dell’articolo di Alessandro Somma che, su Micromega, inneggia all’abolizione delle Regioni[8]: «l’atteggiamento del governo esprime la miseria di una politica cieca di fronte al fallimento delle Regioni, reso più che mai evidente dalla drammatica inadeguatezza del sistema sanitario a fronteggiare la pandemia da coronavirus». Siccome «le Regioni hanno dato prova di non saper esercitare le loro competenze, o peggio di farlo per mortificare il pubblico e alimentare forme di privatizzazione selvaggia» – continua Somma – allora le Regioni vanno abolite. Regionale per Somma è sinonimo di privatistico, malcostume, corruzione, spreco. Le Regioni – sostiene Somma – promuovono addirittura il «caudillismo».
Dove stia scritto però che regionalismo è sinonimo di tagli, privatizzazioni e liberismo sfrenato, mentre invece centralismo è sinonimo di efficienza, economia ordinata (se non pianificata) e difesa del servizio pubblico, non si evince chiaramente. Nel Veneto, per esempio, il SSN è quasi interamente pubblico. Inoltre lo scandalo del commissario ad acta (di nomina centrale) per la sanità calabrese, Saverio Cotticelli che, in piena emergenza coronavirus, ha ammesso che proprio lui avrebbe dovuto predisporre il piano Covid per la Calabria, dimostra tutta la fragilità di tale equazione fra centralismo ed efficienza.
Le politiche ultraliberiste varate da tutti i partiti dell’arco parlamentare negli ultimi decenni, che si sono incarnate nelle manovre della cosiddetta austerity (dalla “spending review” al “pareggio di bilancio in Costituzione”, al “fiscal compact”), e le relative politiche da macelleria sociale che hanno devastato la spesa pubblica e prosciugato le casse alla spesa sui territori, non sono state volute e varate dalle Regioni, ma appunto dal Parlamento della Repubblica “fondata sul lavoro”.
La tesi secondo cui centralismo sta a servizio pubblico e a efficienza come regionalismo sta a privatizzazione e a babele istituzionale risulta, a conti fatti, priva di fondamenta logiche, storiche e politiche.
La lezione di Gramsci, che stigmatizzava il «centralismo bestiale» e ricordava come l’unificazione statale si fosse realizzata interamente ai danni delle classi lavoratrici e dei territori subalterni, è stata insomma dimenticata.

Cosa ha dimostrato veramente il Covid-19?

Per i neocentralisti la pandemia ha dimostrato che le Regioni vanno abolite e che bisogna centralizzare tutto perché lo Stato centrale sa gestire meglio le emergenze ed è più democratico. A ben vedere la pandemia ha dimostrato esattamente il contrario. Era il 7 marzo 2020, il Covid-19 dilagava nel Nord Italia e il Comitato tecnico scientifico nominato dal Governo Conte proponeva di «definire due livelli di misure di contenimento da applicarsi: uno nei territori in cui si è osservata ad oggi maggiore diffusione del virus, l’altro, sull’intero territorio nazionale». «Il Cts individua pertanto – scrivevano gli esperti scientifici – le zone cui applicare misure di contenimento della diffusione del virus più rigorose rispetto a quelle da applicarsi nell’intero territorio nazionale, nelle seguenti: Regione Lombardia e province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena; Pesaro Urbino; Venezia, Padova e Treviso, Alessandria e Asti»[9]. Dunque zone rosse (di chiusura generalizzata) in tre Regioni. Due giorni dopo, il 9 marzo, tutta Italia è entrata in lockdown, senza differenze territoriali. Questi verbali vennero desecretati dalla Fondazione “Luigi Einaudi” solo il 6 agosto, quando sembrava ormai che la pandemia fosse stata arginata. Perché il Governo centrale ha deciso di chiudere tutto quando perfino il suo Comitato tecnico scientifico suggeriva chiusure proporzionali all’epidemia? Perché si è passati velocemente dal #Milanononsiferma e dagli apericena organizzati dai più importanti uomini politici dello Stato (da Salvini a Zingaretti) alla serrata totale?
E soprattutto, perché quando la Regione Sardegna (prima del 9 marzo, cioè della serrata totale) ha chiesto di chiudere i collegamenti per sfruttare il vantaggio insulare e arginare l’epidemia, Conte ha risposto che sarebbe bastata la quarantena e che non era possibile arginare la «libertà di movimento»? Perché il primo DPCM generale che vietava tutte le produzioni “non essenziali” venne presto corretto dal presidente di Confindustria Boccia e il tutto si risolse in una montagna di deroghe per le fabbriche del Nord e in una asfittica e paradossale chiusura per le attività del Sud e delle Isole? E infine perché in occasione della riapertura del 3 giugno non si è permesso alle Regioni, specialmente alla Regione Autonoma della Sardegna – che avrebbe potuto sfruttare il vantaggio insulare e restare libera dal virus – di effettuare filtri e controlli e di pretendere un passaporto sanitario per gli ingressi?
Certamente la giunta Solinas ha gestito la pandemia in maniera scandalosa, senza alcuna competenza e giocando una partita tutta politica con il governo centrale, guidato da forze di segno avverso alla destra a cui i sardisti sono attualmente alleati. Sullo sfondo – come sempre – i bisogni e i diritti della Sardegna, dei sardi e la tenuta della sanità regionale al collasso. Ma che c’entra il bambino con l’acqua sporca? Come si fa a sostenere il legame logico e filosofico-politico fra la giusta denuncia di una classe politica subalterna con la necessità di cancellare l’istituzione regionale e – a cascata – quella autonomistica?
L’esperienza del Covid-19 dimostra che l’Italia è una Repubblica fondata sugli interessi delle aree ricche e questo non dipende affatto dall’esistenza delle Regioni, perché si trattava di un meccanismo assai rodato anche ai tempi del centralismo monarchico. Ciò è accaduto, per esempio, in occasione della guerra doganale con la Francia, quando per proteggere il fragile apparato industriale del Nord si decise di sacrificare l’agricoltura e l’artigianato del Sud, in particolare della Sardegna e della Sicilia. La Sardegna in quell’occasione – ricorda Gramsci – «fu letteralmente rasa al suolo come per un invasione barbarica»[10].
Gli odierni profeti del neocentralismo progressista sono convinti che, una volta abolite le Regioni ed – evidentemente – anche gli statuti di Autonomia, non si tornerà a quei tempi dove le popolazioni e i territori subalterni non disponevano di alcun filtro – nemmeno potenziale – per opporsi alla ragion di Stato che poi era in effetti la ragione del blocco economico e politico degli industriali del Nord con i latifondisti del Sud.
È inoltre culturalmente preoccupante che tutti gli illustri neocentralisti citati non si peritino neppure di fare una distinzione tra Regioni effettivamente astratte e prive di radice storica e culturale e Regioni che, al contrario, rappresentano popoli con un profilo linguistico, culturale e storico ben definito, come appunto i sardi, i ladini, i siciliani, i sudtirolesi, i friulani e i veneti.
Corruzione, liberismo, privatizzazioni, malcostume, clientelismo vanno criticati e avversati sempre, sia che trovino la loro scaturigine nell’apparato centrale del potere statale, sia che alberghino nelle istituzioni periferiche. Ma contrastare i poteri dell’autogoverno dei territori, le peculiarità storico-culturali e i principi cardine dell’autodeterminazione popolare e nazionale, inseguendo il mito dello Stato forte e centralista e garante del welfare, è pura mitologia politica, segno di un pensiero politico e filosofico impigrito e oramai allo sbando.
Ciò che serve è, al contrario, recuperare il pensiero e l’azione di Gramsci, riprendere la sua battaglia contro il «feticismo dell’unità» che i neocentralisti di oggi hanno ereditato direttamente da Cavour, Crispi e Giolitti. E non è un bel segnale!

Riferimenti bibliografici citati

[1] Angelo d’Orsi, La ragionevole follia di mettere fine al regionalismo, Il Manifesto, 13 novembre 2020

[2] Angelo d’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, 2017

[3]Antonio Gramsci, (1923) Lettera per la fondazione de «l’Unità», in Fiori G. (a cura di), Antonio Gramsci vita attraverso le lettere. Einaudi, Torino.

[4]Il IV Congresso del Partito comunista d’Italia (Aprile 1931), Tesi e risoluzioni, Edizioni di coltura sociale, Parigi, 1931, pp. 32-33

[5]Non mancano all’appello di tale gogna anti regionalista neppure esponenti della sinistra antagonista e comunista. V. per esempio Sergio Cararo, Zaia va allo scontro sui poteri regionali. Cresce il rischio disgregazione, Contropiano (7 ottobre 2020)

[6]Luciano Canfora, Le Regioni sono una rovina, non siamo mica gli Usa, Il Riformista, 6 novembre 2020

[7] Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, (ebook), 2019

[8] Alessandro Somma, Aboliamo le Regioni, Micromega (30 novembre 2020)

[9]Adnkronos, Verbali Cts, il 7 marzo: “Misure differenziate per territori” (6 agosto 2020)

[10]A. Gramsci, Uomini, idee, giornali, quattrini, Avanti! 23 ottobre 1918

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