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Ori olimpici, margini e cortigiani

di Cristiano Sabino

– tempo di lettura: 12 minuti –

«Siamo l’Italia, la Nazione più veloce del mondo. Siamo la Sardegna, l’isola più veloce del mondo» è l’incipit del commento a firma Mario Carta all’indomani dell’oro olimpico messo a segno nella staffetta 4×100 ai giochi di Tōkyō. Antonio Gramsci aveva sviluppato nei suoi appunti carcerari una categoria specifica per quel genere di intellettuali incapaci di dare un indirizzo serio e organico alla riflessione pubblica, facendosi vettori delle istanze più irrazionali e retrive dell’epoca moderna. Questo indirizzo prende il nome dall’economista e politico italiano Achille Loria.

La definizione che Gramsci offre di “lorianesimo” nei Quaderni del Carcere ci è molto utile per inquadrare larga parte degli intellettuali e degli opinion maker sardi e risulta del tutto centrata rispetto al tentativo egemonico in cui, in questi giorni, i maître à penser della subalternità, captano una differenza a tratti latente e a tratti palese dei sardi per sussumerla in una piatta narrazione nazionalista e sciovinista italiana.

Tali intellettuali si caratterizzano per «alcuni aspetti deteriori e bizzarri» quali «disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell’attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale, mollezza e indulgenza etica nel campo dell’attività scientifico-culturale ecc., non adeguatamente combattute e rigidamente colpite: quindi irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale)» [Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 28 (III), 2007, p. 2322], dove “nazionale”- oggigiorno – può essere inteso sia come sinonimo della vita pubblica dello Stato (italiano) che come espressione di qualsiasi altra comunità politica storicamente determinata.

Ciò che caratterizza la produzione e la formazione dell’opinione pubblica di questi intellettuali è il carattere basso o abbassato della narrazione, il cedimento alla retorica, il nascondimento delle contraddizioni palesi, la mistificazione storico-politica delle questioni a fini utilitaristici, egoistici, di casta.

Da questo punto di vista le pagine di molti giornali sardi di questo inizio agosto – a proposito degli ori olimpici sardo-italiani – rappresentano (magari all’insaputa dei medesimi autori) un campionario interessante di “lorianesimo” applicato alla questione della marginalità della Sardegna.

Del tutto conforme a questi parametri di degrado culturale è il commento sopra accennato di Carta che tira in ballo anche la polemica anti Brexit, ammantando di conformismo europeista il rinnovato nazionalismo antibritannico: «Siamo la Nazione più veloce del mondo e siamo anche la prima Nazione dell’Unione Europea nel medagliere olimpico. L’Inghilterra ci sta davanti ma lei se n’è brexata e noi no».

Il livello è in questo caso talmente tanto basso che anche la categoria di “lorianesimo” risulta perfino ottimistica.

Tipicamente “loriano” è anche l’editoriale di Marcello Fois “Diversi e uniti, campioni e patrioti”, dove l’utilizzo del lemma “patriota” assume la doppia valenza di erodere terreno allo slogan più gettonato del partito guidato da Giorgia Meloni e di rilanciare l’ideologia neorisorgimentalista propria di una larga parte della sinistra italiana, in particolare del PCI post svolta di Salerno (1944), ovviamente deprivata dei contenuti e delle aspirazioni sociali delle classi subalterne di cui era intrisa quella medesima narrazione.

Il discorso “patriottico” di Fois ha due obiettivi dichiarati: decostruire la retorica sovranista della destra che punta a tenere lontana dai diritti di cittadinanza coloro i quali non sono italo-discendenti (o, come sarebbe meglio dire, non sono stati italiano-discendenti) e rilanciare l’antico modello secondo cui i sardi – se vogliono entrare nel discorso storico ed emergere in qualche modo alla pubblica ribalta – devono necessariamente farsi italiani, dimostrarsi italiani, palesarsi come italiani.

Per assolvere a tale funzione subalterna del margine non perde mai valore il conio dell’«orgoglio» sardo: «a margine  sussiste anche l’orgoglio per l’importante quota sarda che compone questa squadra italiana di cavalieri che fecero l’impresa. Più o meno il 37% di questo quartetto è sardo, significa che possiamo permetterci una dose aggiunta di orgoglio, ma senza esagerare, e, soprattutto, senza dimenticare che a rappresentare tutti i sardi sono i quattro mori».

Il lemma «orgoglio», come si vede, ricorre spesso e, quando assolve alla funzione di valorizzare il quadro del patriottismo italiano, assume una funzione positiva e costruttiva.

Solo pochi giorni fa, infatti, gli stessi quattro mori che sciamavano da un capo all’altro della Sardegna, appuntati ai giganteschi rimorchi di foraggio destinati a raggiungere le zone devastate dall’immenso rogo del Montiferru, non risultavano sufficienti a riempire d’orgoglio l’opinione pubblica egemonizzata dal “lorianesimo” sardo. Questo perché il margine, il confine, la provincia, la colonia per acquisire valore, devono essere inscritti in un processo di continua valorizzazione e il combustibile ideologico proprio di un’area subalterna non può essere che quello di dimostrare di essere all’altezza delle aspettative del proprio signore. Nel celebre romanzo di Defoe il selvaggio battezzato con il nome di Venerdì doveva dimostrare al proprio padrone di saper parlare bene la sua lingua tanto da essere quasi un perfetto inglese, così il sardo (e insieme a lui l’afrodiscendente), oltre a “parlare senza accento”, deve anche correre velocemente, segnare un gol, alzare una coppa sotto il cielo terso di Wembley se vuole avere la speranza di essere accettato, se vuole esistere e sussistere, se desidera per un momento illudersi di essere qualcosa. Allora e solo allora, può sfoderare la sua bandiera e mostrare il suo spirito di identificazione, senza dover temere che qualcuno lo tacci di essere vettore della «cultura del coltello» o di covare un atavico «istinto predatorio».

Poco importa se la Sardegna brucia, se la carenza di infrastrutture materiali e immateriali ci precipita agli ultimi posti d’Europa, se l’isola da qui a breve diventerà una piattaforma energetica ad uso e consumo dell’altrui interesse e volere.

L’importante è correre per dimostrare di servire a qualcosa al «nostro paese», come un tempo sull’altopiano del Carso o nelle sconfinate pianure d’Africa al servizio dell’impero e del Re o ancora nelle miniere del Sulcis o nelle fabbriche del Nord Italia.

Orgoglio e pregiudizio potremmo concludere citando un celebre romanzo. Orgogliosi di essere le staffette veloci d’Italia e pregiudizio di essere convinti che un giorno qualcuno o qualcosa ci dispenserà dal dover mostrare che per esistere dobbiamo correre.

Un commento

  • VITTORIO Sechi

    Non è poi così difficile comprendere il perché ci si possa sentire orgogliosi di essere sardi in occasione di una vittoria olimpica o in altre circostanze in cui l’essere sardi ed il correlato comportamento “super mediocris” non scontino alcun pegno etico o morale da pagare e tenacemente ed inscindibilmente iscritto nel “comportamento eroico” stesso.
    Un oro olimpico, nella fattispecie, non è legato ad alcun abominio etico, morale e penale come lo è invece la commovente e meravigliosa paradura di questi giorni, mossa com’è da un disastro ambientale prodotto dalle mani di altri sardi.
    “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”… un epitaffio che ogni tanto bisognerebbe meditare.

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